La carriera di Elisa Di Francisca, che ha dato l’addio al fioretto, è la sintesi di uno sport teatrale e arcitaliano, fatto di pedane come palcoscenici e piccole scuole capaci di conquistare il mondo
Raccontano le testimonianze storiche che uno dei primi luoghi della cultura sportiva greca del mondo antico fu lo stadio di Eleusi, nella città conosciuta per i misteri eleusini, culti segreti riservati a una minoranza di adepti che si svolgevano presso il santuario dedicato alla dea Demetra. Il legame non è casuale, perché gli stessi atleti che si preparavano per le gare di Olimpia o per gli altri grandi agoni erano considerati nella mentalità greca del tempo degli “iniziati”: per esempio nel rituale olimpico chi superava la selezione per l’ammissione alle gare veniva obbligato a trascorrere il mese che precedeva le gare presso il ginnasio di Elis, per allenarsi e prepararsi al meglio attraverso una vita ritirata e separata dal resto della comunità. A questo destino non sfuggono nemmeno gli atleti del nostro presente, soprattutto quelli delle discipline che trovano nel momento olimpico la loro occasione principale di visibilità (per esempio la scherma), il cui percorso di separazione non è solo quello dei sacrifici e delle rinunce rispetto alle persone comuni, ma anche quello nei confronti dei colleghi calciatori (e cestisti, tennisti, golfisti, ciclisti…) da cui li separa una diversità di soddisfazione del proprio desiderio agonistico molto più crudele e precaria: i Giochi Olimpici sono troppo più importanti di tutte le altre gare, le occasioni per parteciparvi poche, le probabilità di vincere ancora meno, la possibilità di rifarsi di errori commessi indisponibile in tempi brevi, eventuali avversità aggiuntive, come un posticipo causa pandemia mondiale, esiziali negli effetti su programmazioni e speranze. A questo si aggiunge il fatto che di queste angosce il pubblico si interessa poco o punto.
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