Quando Maradona portò il San Paolo ad Acerra
Era il 25 gennaio 1985 quando Diego andò contro il volere del presidente Ferlaino pur di giocare un'amichevole benefica per un bambino gravemente malato. "Quel giorno divenne il Dio di Napoli", ricorda chi c'era sugli spalti
Fu Pietro Puzone, che ad Acerra era nato e cresciuto, a parlargli di un amico del padre che aveva un figlio gravemente malato. Una malformazione alla bocca che poteva essere operata solo in Francia. Ma servivano soldi, molti, e quell'uomo non gli aveva. Diego Armando Maradona l'aveva guardato, c'aveva pensato su un attimo, poi gli aveva detto: "E che problema c'è, li troviamo". L'idea era venuta in un attimo: organizziamo un'amichevole, il resto lo si sarebbe raccolto con una colletta in spogliatoio.
Sembrava una cosa semplice semplice, ma così non fu. Perché il presidente Corrado Ferlaino non ci pensava minimamente di mettere a rischio le gambe dei suoi ragazzi per beneficienza. C'aveva investito un patrimonio in quella squadra che non se la passava nemmeno troppo bene in campionato. E poi disputare un'amichevole al San Paolo era fuori discussione. Servivano la vigilanza, le forze dell'ordine, manutenzione straordinaria. Disse a Puzone e Maradona che di quella partita non era da giocare. E poi c'erano di mezzo le assicurazioni e le assicurazioni non pagavano per la beneficienza.
Maradona s'era arrabbiato parecchio. Lui aveva dato la sua parola a Puzone che l'aveva data al padre del bimbo. E la parola, per uno come Diego, era una firma su un contratto. La partita si sarebbe fatta comunque, a costo di farla a insaputa del presidente e lontano dal San Paolo. "Che si fottano i Lloyds di Londra. Questa partita si deve giocare per quel bambino", disse, o così almeno hanno detto in molti. Vero o no che fosse ha poca importanza.
Perché in un lunedì di gennaio, il 25 gennaio 1985, dopo un 4-0 al San Paolo alla Lazio e una settimana di pioggia continua, Maradona e (parecchi) compagni si presentarono al campo di calcio di Acerra. Che più che campo di calcio sembrava un campo di patate, con le aree di porta fangose e qualche sassetto qua e là.
Maradona e compagnia sorridevano agli obiettivi delle macchine fotografiche, facevano autografi ai più, avevano una parola per tutti. La tribuna del campo era stracolma. E chi non era riuscito a trovare posto si mise dove riuscì. Sui terrapieni, attaccato alle reti, sopra le macchine. Diecimila persone, forse qualcuno in più. Un incasso di 20 milioni di lire. Abbastanza per portare il bimbo in Francia. Poi un extra alla famiglia arrivò dallo spogliatoio.
Finì tanto a poco quella partita. Maradona non si risparmiò, uscì lercio di fango, con parecchi gol fatti e uno slalom che, chi c'era quel giorno, giura fosse uguale a quello che l'anno dopo fece all'Inghilterra al Mondiale.
Maradona era già il Re di Napoli, quel giorno, ricorda Francesco Iaruta, divenne "Dio, perché un campione che si lorda di terra, che gioca al massimo in un campetto come quello per onorare chi c'era, per far dir loro 'ho visto Maradona', beh, quelle cose mica le scordi. Maradona quel giorno ci fece capire che per lui, anche noi poveri cristi eravamo parte di una famiglia, quella del Napoli".
Per Iaruta "Maradona non solo era megl' 'e Pelé, era megl' 'e tutti. Quando vedo un calciatore rifiutarsi alla gente, mi viene in mente don Diego che pur di regalarci un'emozione era disposto a tutti, anche a pagare di tasca sua 12 milioni all'assicurazione, o almeno così dissero a Napoli quei giorni. Maradona aveva un'anima che pensava al plurale, che pensava a compagni e spettatori, perché in cuor suo sapeva che senza di noi al San Paolo lui sarebbe sempre stato il migliore, ma forse per meno persone. La differenza tra lui e gli altri sta tutta qui. Una questione di umanità".