Si faceva di cocaina. E’ stato violento con alcune donne. E’ stato accusato di essere un molestatore. Si è rifiutato a lungo di riconoscere i figli avuti fuori dal matrimonio. Si è fatto riprendere mentre sparava ai giornalisti dalla finestra di casa con proiettili ad aria compressa. Non ha mai rinnegato la sua amicizia con alcuni camorristi. Non ha mai nascosto la sua vicinanza ai dittatori. Non ha mai negato di amare chi chiedeva di radere al suolo Israele. Eppure, da mercoledì sera, dall’istante immediatamente successivo alla notizia della sua morte, le uniche immagini che contano della vita di Maradona sono, per tutti, quelle che hanno a che fare non con i fotogrammi della sua dannazione ma con le istantanee della sua poesia. Maradona è questo ed è stato questo. Non la coca, non le donne, non le molestie, non Fidel, non Ahmadinejad ma la rovesciata contro il Pescara nel 1984, il gol dal calcio d’angolo contro la Lazio ancora nel 1984, la punizione contro la Juve nel 1985, il pallonetto contro il Verona nel 1985, la serpentina contro l’Inghilterra nel 1986, i palleggi con i mandarini, gli scudetti vinti, la Coppa del mondo al cielo. Conta questo di Maradona ed è giusto che sia così. Conta il suo talento. Conta il suo genio. Conta la sua classe. Conta la sua arte. Il resto conta, sì, ma conta un po’ meno. Non ce ne siamo accorti forse fino in fondo, ma in ciascuna delle celebrazioni del mito di Maradona è contenuta una verità universale capace di prendere forma solo quando il soggetto in questione si trova immerso nella magia dello sport.
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