Di tutti i ricordi apparsi in questi giorni su giornali di carta, online, blog, ascoltati alla radio, visti alla televisione, postati su Instagram, su Twitter su Facebook, su qualsiasi social, l’aspetto più clamoroso è, appunto, il ricordo. Al di là di vizi e virtù, di colpi di genio, di testa, di mano, di sinistri all’incrocio con carezze di velluto, di sinistri, intesi come tipi, che lo hanno affiancato, sedotto, turlupinato, di donne che sono andate e venute, mai nessuna rimasta, di meraviglie calcistiche e prese di posizione da bolso commediante, di politici che lo hanno usato e che ha usato, di miliardi di uomini che ha divertito e che lo piangono, al di là di tutto questo, di Diego Armando Maradona, morto a neanche un mese dai suoi sessant’anni, abbiamo dei ricordi. Tantissimi i ricordi personali. Soprattutto i giornalisti che avevano l’età per stare sul campo, in prima linea dove avveniva il grande calcio che, a metà degli anni Ottanta, avveniva qui, in Italia. Tutti questi siamo noi, che c’eravamo quando sbarcò a Napoli a palleggiare dentro lo stadio che ora porterà il suo nome, poi, dopo, in giro per l’Italia. Tutti hanno postato una foto (da soli o in compagnia), scritto di un istante con lui, da soli o in compagnia. E lo stesso, in tanti, potrebbero fare di Michel Platini, di Zico, di Van Basten (autorizzo questi signori a compiere gesti scaramantici anche volgari), cioè dei grandi campioni di un epoca irripetibile. Per l’Italia di sicuro.
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