Nel ricordo di Pablito. Nell’autunno del 1986 il Giornale mi chiese un’intervista a Paolo Rossi che era passato dal Milan al Verona, per il suo ultimo urrà nel football. A giugno avrebbe chiuso. Lo aspettai nel parcheggio del Bentegodi, gli chiesi se potevamo parlare e lui mi rispose “sì, certo” e ci fermammo lì, nell’aria ancora tiepida, appoggiati a un’auto. C’era un’epoca i cui i giornalisti lavoravano così, andavano, senza appuntamento, né richiesta in carta da bollo presentata all’ufficio (stampa) preposto. C’era un tempo in cui pranzavano con le squadre di calcio in ritiro alla vigilia delle partite. Io, alle 13 del primo gennaio 1983, a Milanello, mi sedetti a tavola con Baresi, Tassotti, Serena, Evani (Alberico, detto “Bubu”), l’attuale vice di Mancini. Ah, su Mancini ne ho una stupenda. Ma ci arriviamo, perché prima una premessa è d’obbligo. Qui parliamo dei rapporti tra giornalisti e calciatori/club, di come erano e di come non sono più. Ne ha scritto, lungamente, Mario Sconcerti sulla Lettura del Corsera, sfidando il famoso “assioma De Cesari”. Ezio De Cesari, leggendaria firma del Corriere dello Sport, a cui vengono attribuite alcune delle massime/regole più fulminanti riguardo la professione del giornalista (sportivo), sosteneva: “Non ti lamentare e non parlare mai sul tuo giornale o pubblicamente dei problemi dei giornalisti o del cattivo trattamento da parte dei club. Chi ti legge sarà solo contento. Diranno: fanno bene”. Vangelo. Il giornalista sportivo, anche in tempi meno pessimi di questi, è sempre stato trattato dal popolo con sentimenti che vanno dalla sufficienza al disprezzo perché (1) anche l’ultimo coglione da stadio e ora da tastiera è convinto di saperne sempre più di un professionista e (2) perché il giornalista è considerato un privilegiato. Come al nome dell’arbitro negli stadi (quando c’era popolo), partono i fischi preventivi. Quello che voglio dire, cominciando questo trattatello sul mutamento dei rapporti club/giocatori e “media” – parentesi: già in questa parola c’è il senso del cambiamento, negli anni Ottanta avrei detto “stampa” – è che non si tratta di un cahier de de doléances (1), né di un esercizio di nostalgia (2). La nostalgia esiste se avevi qualcosa e poi l’hai perso. Chi ha la mia età, ora fa il giornalista in modo diverso; chi ha trenta, quarant’anni, non conosce altra realtà che questa. Questo è un album di fotografie.
Abbonati per continuare a leggere
Sei già abbonato? Accedi Resta informato ovunque ti trovi grazie alla nostra offerta digitale
Le inchieste, gli editoriali, le newsletter. I grandi temi di attualità sui dispositivi che preferisci, approfondimenti quotidiani dall’Italia e dal Mondo
Il foglio web a € 8,00 per un mese Scopri tutte le soluzioni
OPPURE