Lo chiamavano Buldozer. Addio a Fabio Enzo, l'ultimo degli apocalittici
Centravanti di sfondamento, due stagioni alla Roma, durante le quali decise un derby storico: i giallorossi non battevano la Lazio da undici anni. Estroso, calciò un rigore col tacco: palo; polemico con gli arbitri (mise assieme 64 giornate di squalifica)
Poi un giorno si avvicinò al dischetto del rigore a passi lenti, sbirciò il portiere avversario, si girò all'improvviso e colpì il pallone di tacco. Palo, perché a fare gol sono capaci tutti. Siamo qui a rendere omaggio a Fabio Enzo, l'ultimo degli apocalittici, alla faccia dei colleghi integrati nel sistema. Se n'è andato ieri, aveva 74 anni. Negli anni ’60 e i ’70 in A e in B vestì le maglie di Roma, Mantova, Cesena, Napoli, Verona, Novara, Foggia. Chiuse nel 1983, a Biella; dopo vent'anni di corse a perdifiato, nell’abbrivo di una carriera cominciata a Venezia nel 1963.
Enzo era un ragazzone dal fisico possente, lo chiamavano "Buldozer". Spalle larghe, mento volitivo, sorriso beffardo trattenuto nella riga decisa della bocca, ciuffo appiccicato alla fronte: c’è chi nasce sudato perché ha già messo in preventivo la fatica. Figlio unico di un magazziniere con la passione del pallone e di una casalinga, nato in una striscia di terra tra Venezia e Jesolo, nel mare calmo di un nulla che non prende mai forma e oggi è una distesa desolata di campeggi vuoti intervallati da spiagge, orti e valli da pesca; Enzo per tutta la vita ha parlato solo in dialetto, nel tipico intercalare del veneziano che ritiene - non a torto - che il mondo giri intorno alla Laguna, quindi tocca agli altri sforzarsi di comprendere.
Era così anche in campo. Centravanti di sfondamento, uno che i "falsi nueve" di cui si ciancia oggi se li sarebbe mangiati a colazione, col pane duro del giorno prima e una damigiana di caffellatte, che male non fa. Se c'era da menare, lui menava. Se toccava prenderle, incassava. Non si spezzava, magari si spiegava: reagendo. Litigò con gli arbitri come pochi altri, nessuno protestò con la sua foga. In tutta la carriera mise assieme 64 giornate di squalifica, quasi tutte per battibecchi con i direttori di gara. Aveva la dinamite tra i piedi e bisogna immaginarlo di corsa, in campi brulli di quegli anni in bianco e nero, nell'atto di calciare quei palloni di cuoio pesantissimi e inzuppati di fango.
Spese tutto quello che aveva guadagnato - non molto per la verità, quelli erano anni in cui persino i campioni, quando finivano la carriera, aprivano una pompa di benzina o diventavano controvoglia soci di un'agenzia di assicurazione. Si sposò con una ragazza australiana conosciuta a Cesena, ebbero una figlia. Prima, se l'era goduta parecchio. Una volta in tournée si innamorò di una hostess conosciuta all'aeroporto di New York. Per mesi fece Roma-New York tutte le settimane, partenza domenica sera dopo la partita e ritorno il martedì mattina, per gli allenamenti. Dormiva in camera con Fabio Capello, bisiaco di Pieris, si davano la buonanotte in dialetto. Una volta fuori dall'albergo dov’era in ritiro la Roma trovarono un povero cristo seduto sul marciapiede che faceva l'elemosina. Si fermarono. L'uomo stava morendo di freddo, non aveva niente con cui coprirsi. Enzo si tolse il cappotto e glielo diede, diciamo che batté sul tempo Capello, ma anche no. Comunista nell’anima, arrivava al campo fischiettando "Bandiera Rossa la trionferà"; una sera a Fregene fece l'alba parlando con Pasolini di calcio, cinema e del faro di Cavallino, avamposto di sognatori e pirati.
A sedici anni lasciò per la prima volta il Cavallino, l'aveva preso la Salernitana, che militava in Serie C. Partì il 18 luglio, tornò a casa il 22 dicembre. Erano tempi così, si partiva sempre per fare il militare. A Roma lo ricordano per un celebre gol, di testa, in un derby dell'ottobre 1966. Aveva vent'anni, la Roma non vinceva il derby da undici anni. Nelle cronache del giorno dopo si parlava di Fabio Enzo come della nuova promessa del calcio italiano. Non mantenne tutte le promesse, ma il suo percorso professionale fu onesto e con più di qualche soddisfazione. Una volta - l'abbiamo detto - calciò di tacco un rigore. Era un Cesena-Casertana di Coppa Italia, si stava vincendo 3-0 e mancavano due minuti alla fine. Fabio Enzo in settimana aveva fatto una scommessa con il compagno di squadra Paolone Ferrario, il noto 2Ciapina". Vuoi vedere che? Non ci credo. Vedrai. Calciò di tacco, prese il palo. L'arbitro era Nicchi, oggi designatore. Beccò dal presidente del Cesena una multa di 100.000 lire. Rise molto, non si pentì. Non si negò nulla, mai una serata con gli amici.
Dopo il calcio si trovò a fare un po’ di tutto, dal cameriere al giardiniere, fino al custode e all'imbianchino. Non si lamentò mai, visse tutto quello che c'era da vivere. Era un uomo buono, complice della vita. Seguiva ancora il calcio, si teneva informato. Nel garage di casa sua allestì un piccolo museo, ritagli, memorabilia, foto, ricordi, più di duecento maglie. Ci teneva che i ragazzi conoscessero la storia, non solo la sua, ma quella del calcio romantico che aveva frequentato. Tra i tanti, conservava gelosamente una foto con dedica di Pelé. Ci giocò contro un paio di volte, raccontò che si vergognava a dargli la mano, quello era Pelé e lui era Fabio Enzo dal Cavallino, partito per andare a fare calcio che era ancora un ragazzo.