Grottesco giallorosso. La Roma non ha mezze misure
La squadra in due settimane è finita allo sbando, tecnico e organizzativo. Con un tutti contro tutti che rasenta il ridicolo
C’è stato un momento, una quindicina di giorni fa, non mesi e mesi addietro, che la Roma è salita sul secondo gradino del campionato. È successo quando Pellegrini ha segnato all’Olimpico la rete del vantaggio contro l’Inter. In quel momento, la classifica così recitava: Milan al primo posto, Roma al secondo e Inter al terzo. Il dato, al di là di tutto, non può passare inosservato alla luce di cosa è accaduto dopo quella rete di Pellegrini: pari finale in rimonta contro l’Inter e doppio rovinoso (a dir poco) rovescio contro la Lazio e contro lo Spezia in Coppa Italia. Con la grottesca aggravante di aver ignorato il regolamento, andando a fare addirittura sei sostituzioni (rimossi due dirigenti).
Dal gol di testa di Mancini contro l’Inter per un punto di prospettiva Champions, un disastro. Con la ciliegina marcia della seconda sconfitta a tavolino nel giro di pochi mesi. Un record mondiale, probabilmente. Di cui nessuno, però, può andare fiero. La Roma in due settimane è finita allo sbando, tecnico e organizzativo. Con un tutti contro tutti che rasenta il ridicolo. Con liti continue, più reali che presunte, nello spogliatoio. E con il rapporto Dzeko-Fonseca ai minimi termini. Dopo essersi fatta ridere dietro da mezza Italia per la prestazione nel derby, la Roma ha convinto l’altra metà del paese a sghignazzare con il “caso cambi” contro lo Spezia. Roba che neppure nei campionati di Terza Categoria si riesce a trovare con facilità. E i Friedkin non hanno gradito. Ovviamente.
Quando ci si mette la Roma dà il peggio di sé, riuscendo a produrre in un amen il cento per cento di nefandezze. E come impone la grammatica del pallone, è finito sotto la lente di ingrandimento il lavoro di Paulo Fonseca. Da “Mister Scudetto” (qualcuno prima della sfida contro l’Inter si era avventurato a mollargli questa etichetta) a “FonsecaOUT” il passo è stato brevissimo. Come sempre accade nella Capitale dell’esagerazione, luogo ideale per montare e smontare miti dalla notte al giorno. E a nulla vale ricordare, a parziale difesa del portoghese, che la Roma all’inizio del campionato era stata inserita dai critici e dagli addetti ai lavori tra il sesto e il settimo posto in classifica. E che quindi al netto delle recenti, imperdonabili bruttezze, la squadra sta facendo (anche in Europa League) il suo. Solo che la Roma non riesce a usare mezzi termini: se perde la partita, sistematicamente perde anche la faccia. Non perde mai bene. Con dignità. E poi a Roma, si sa, ogni vittoria è preludio di scudetto, ogni sconfitta una tragedia. Di questo passo non esiste equilibrio. Al punto che ora non va bene neppure essere in classifica al terzo posto alla pari del Napoli. Fonseca (sesta scelta dell’ex ds Petrachi) non è il miglior allenatore al mondo, ma neppure il peggiore. Ha sbagliato parecchio, ma non è stato l’unico. A Roma, però, non ha conquistato la piazza; non ha bucato il video. E la sua cacciata non lascerebbe vedove affrante. Il portoghese non è uomo da sbraitare in faccia ai giocatori, in panchina non si agita (i critici più feroci gli rinfacciano di sonnecchiare) e questo – anche mediaticamente – alla lunga lo sta penalizzando. Perché chi parla e non urla viene considerato un debole. E quando le cose non vanno è facile e comodo prendersela con il più “debole”. Se la Roma vince, vince la Roma; se la Roma perde, perde Fonseca. Finora, è sempre andata così. Paulo gode di fiducia a tempo, si è sintetizzato nelle ultime ore. Ma esiste la fiducia a tempo? Per noi, se mai, esiste la sfiducia a tempo. Perché se non c’è fiducia senza se e senza ma, cioè fiducia e basta, vuol dire che il portoghese ha davvero i minuti contati sulla panchina della Roma. Occhio, Fonseca: c’è poco da stare Allegri, verrebbe da dirgli. Oggi Roma (senza il capitano Dzeko “infortunato”) di nuovo in campo contro lo Spezia, la squadra che l’ha buttata fuori dalla Coppa Italia con le riserve delle riserve. L’occasione per confermare, in un senso o nell’altro, che la fiducia a tempo è solo un concetto astratto.