Nei giorni scorsi, nei giorni che hanno preceduto il Super Bowl LV tra Tampa Bay Buccaneers e Kansas City Chiefs, la città che ospita la partita, Tampa, non è sembrata meno attiva del solito. Ristoranti aperti, con gestione oculata dei clienti, negozi e centri commerciali frequentabili, sempre con attenzione alle norme base di protezione di sé e degli altri, il 75 per cento di stanze di hotel occupate. Una città normale, certo più dell’aprile scorso, quando era tutto chiuso e gli hotel erano pieni (cioè vuoti) al 17 per cento. E questo è un problema: perché una città che ospita il Super Bowl normale non può, non deve apparire. Dev’essere carnalità brulicante, umanità ondeggiante tra il buzzurro, il raffinato, l’esaltato e il nerd. Dev’essere il posto in cui il tifoso di una squadra lontana arriva con il camper e gira in calzoncini corti e sandali, sfiorando invece quello che si è affidato alla OLE, la On Location Experience gestita dalla NFL, che in cambio di molte migliaia di dollari ti porta in loco, ti dà una bella stanza di albergo, ti fa saltare la fila agli eventi e ti sistema, per la partita, in un posto dal quale puoi sentire persino il profumo dell’erba del campo, o in alternativa dei piatti dell’abbondantissimo buffet. Dev’essere assembramento di corpi, trasmissione di passione, contatto, strofinamento, odore, afrore, caos, che gli organizzatori ogni anno si illudono di saper gestire. Non c’è nulla di tutto questo, ovviamente, per via del Covid e per la singolare circostanza della presenza in finale della squadra di casa, fatto mai avvenuto nei 54 Super Bowl precedenti.
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