Che tempesta emotiva, il Superbowl andato in scena domenica! Neanche per un momento il valore sportivo dell’evento, la sfida tra i campioni uscenti, i Kansas City Chiefs, e una formazione estranea all’aristocrazia del football americano, i Tampa Bay Buccaneers, è riuscito a sovrastare l’imponente fattore psichico che ha riunito cento milioni di americani davanti ai teleschermi, per l’evento più visto dell’anno, una specie di pranzo del Ringraziamento catodico. Tutte le passioni fluivano ben oltre i lanci e i passaggi della palla ovale, nella partita che i floridiani da subito hanno incanalato dalla parte giusta, sovvertendo un pronostico che li vedeva come “finalisti per caso”. L’intero evento si è proiettato invece su una scala diversa, spirituale, perché questo è stato il Superbowl dell’America ammalata e neppure convalescente, il Superbowl in cui il grande paese si è scoperto fragile, il Superbowl arrivato nell’epilogo della follia elettorale, dei deliranti opposti estremismi, del paese spaccato in due come una zucca, su cui aleggia il fantasma del desaparecido Trump e di cui Joe Biden sta provando a farsi carico, con le cautele del caso. Il paese del bianco e del nero, della tensione, degli scheletri nell’armadio, dei conti da saldare, dei torti da risarcire, del non-detto e di ciò che è meglio tacere.
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