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Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza

Quando il portiere era come Jacques Tati

Alessandro Bonan

Tra le migliori interpretazioni del mimo francese c'è quella dell'estremo difensore. Come è diverso il portiere nel calcio moderno rispetto a quello di allora. Come avrebbe potuto raffigurarlo l’attore francese?

C’era una volta Jacques Tati, straordinario mimo francese. Tra le sue migliori interpretazioni quella del portiere di calcio, di cui aveva colto una gestualità molto psicologica, visto che ai tempi, anni Sessanta o giù di lì, il ruolo era vissuto in solitudine. Il Tati-portiere se ne stava appoggiato al palo come se fosse in attesa del tram, allertandosi, con uno sguardo vagamente scettico, solo per l’avvicinarsi di una immaginaria azione avversaria. Flemmatico, quasi svogliato, sembrava che la partita lo riguardasse marginalmente, immerso nel tedio della routine, in pace con se stesso. In pochi gesti, il mimo francese aveva colto l’essenza di una figura quasi letteraria, la metafora della solitudine nel caos di una vita. Il portiere non scriveva, si limitava a leggere le trame degli altri a cui metteva il punto con una parata salvifica o un tuffo vano. C’era una mossa che faceva, sublime. Era l’atto del rinvio. Tati-portiere calciava lontano e poi voltandosi ma non del tutto, restando di tre quarti, con una corsa a ritroso armonica, un ballo, ritornava tra i pali, come se da quel momento si potesse rilassare, finalmente.

   

   

Sebbene si trattasse di una parodia, quella di Tati si avvicinava molto alla realtà. Quanto è distante quel tempo, come è diverso il portiere nel calcio moderno! E come avrebbe potuto raffigurarlo un genio dell’osservazione come l’attore francese? Immagino una interpretazione fatta di scatti, sguardi attenti e preoccupati, tic ossessivi, insomma la rappresentazione di una figura nevrotica. Perché il portiere, nel calcio moderno, gioca con gli altri ma perde da solo. E’ un acrobata sul filo, dove quel filo è la linea di porta, sulla quale deve fare il giocoliere con la palla, che se gli manca l’attimo precipita. E’ successo anche in Champions alla Juventus, dove Szczesny, uno dei più bravi al mondo, si è ritrovato all’improvviso con la faccia a terra e il pallone dietro le spalle. Era appena iniziata la partita che già sembrava finita, inutile, quasi stupida. Pirlo, come tanti suoi colleghi, preferisce che l’azione cominci dal portiere, per stanare gli avversari e giungere dall’altra parte con maggiore facilità. Più o meno come dire che per viaggiare in fretta sia meglio imboccare la provinciale invece dell’autostrada. Ipotesi romantica ma contrastante con la logica, soprattutto se nella provinciale ci vanno tutti, intasando il traffico. Vi è un fondo di vanità, verrebbe da dire, in certi allenatori, e a pagarne le spese sono i portieri, di cui ci resta il ricordo che fu. Quello di un uomo schivo, incongruente perché solo in mezzo alla folla, stravagante figura con il cappello, che, come faceva il grande Tati, ogni tanto calciava lontano e poi si riposava, appoggiato al palo, con gli occhi rivolti all’orizzonte, in attesa di sapere che cosa sarebbe stato, di lì a poco, della sua vita.

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