Il Piemonte è un Giro d'Italia
Le biciclette di Asti, le risaie del vercellese, le ciclabili ritrovate di Torino e gli anni dei grandi duelli ciclistici sulle strade piemontesi. Intervista a Bruno Gambarotta
In barba all’età e a un cognome che non è proprio di buon auspicio, Bruno Gambarotta, scrittore, giornalista, conduttore televisivo e radiofonico, 84 anni il prossimo 26 maggio, continua ad andare in bicicletta. È un vecchio amore di gioventù, "di quando le biciclette, come nei film del neorealismo, era un elemento del paesaggio, un fatto naturale, non lo si notava neppure. Anzi, lo si notava solo se non c’era".
A Gambarotta, astigiano ma da anni trapiantato a Torino, siamo andati a chiedere di parlarci di bicicletta e ciclismo, visto che per settimane si è saputo soltanto che prossimo Giro d’Italia assomigliava a un gran Giro del Piemonte. In attesa dello svelamento dell’intero percorso di oggi, le notizie certa erano poche: che la Grande Partenza della Corsa Rosa, edizione 104, sarà ospitata da Torino, sabato 8 maggio, con una cronometro individuale di 9 km nel centro storico e lungo il Po. Quindi, ancora Piemonte nelle due frazioni seguenti: dalla Palazzina Reale di caccia di Stupinigi a Novara e poi da Biella a Canale. Ma non finisce qui. Ci saranno altre due tappe piemontesi: nella terzultima, l’inedito arrivo all’Alpe di Mera, in Valsesia, e la penultima con partenza da Verbania.
Del resto, Torino e il Piemonte stanno alla storia del ciclismo italiano come la finanziera e la bagna càuda alla grande storia della gastronomia nazionale. "Io però sono astigiano, anche se una volta un refuso tipografico mi ha fatto diventare “scrittore artigiano”. Al punto che a quella denominazione mi ci sono affezionato" tiene a precisare Gambarotta.
Quali ricordi ha del Giro, signor Gambarotta, e più in generale del ciclismo?
I ricordi del Giro sono quelli di un ragazzo del primo dopoguerra. Tra Coppi e Bartali in famiglia si faceva il tifo per il primo, e non soltanto perché, anche se “di confine” era piemontese come noi. Bartali era troppo in odor di sagrestia. Però mi ricordo bene il suo Tour del ’48, quello che vinse nei giorni dell’attentato a Togliatti e tutti dissero che salvò l’Italia dalla rivoluzione dei comunisti. Mi è sempre sembrata un’esagerazione leggendaria, ma era vero che l’Italia si fermava per ascoltare le radiocronache delle sue imprese. Ad Asti la mia famiglia abitava al secondo piano di una casa del centro, nell’antica Contrada degli israeliti, il vecchio Ghetto. Era luglio ed avevamo le finestre aperte e la radio accesa. Nella via di sotto c’erano degli operai che lavoravano per strada. Si fermarono anche loro e ci chiesero se per favore potevamo alzare il volume della radio per ascoltare la vittoria di Gino.
E ad Asti si ricorda che ci passava il Giro?
Come no. Ci preparavamo per tempo lungo il percorso, corso Alfieri, o piazza Alfieri, davanti a un caffè Alfieri (non so se si è capito che Vittorio Alfieri è nato ad Asti) e ci ritagliavamo con cura la pagina del giornale con stampati tutti i nomi dei corridori coi relativi numeri che portavano attaccati sulla schiena. Tempo che arrivavano, ne fissavi uno, leggevi il numero, guardavi il ritaglio di giornale per scoprirne il nome ed erano già passati tutti… Noi di Asti però siamo tutti cresciuti nel mito del “Diavolo Rosso”, Giovanni Gerbi. Insieme ad Alfieri, una specie di santo patrono.
La sua prima bicicletta?
Fu una bicicletta in condivisione con mio fratello. Allora si usava così. Soprattutto nelle famiglie numerose la bici era un bene comune. Io e mio fratello ce la dividevamo, non senza contestazioni. Tre giri della piazza a testa. Ma poi c’era sempre da questionare: “Tu ne hai fatto uno in più”. “Sì però uno non era completo” e via così… Era una bici col contropedale. Si frenava dando un colpo contrario sulla pedivella. Se lo facevi in curva sterzando, ed eri bravo, andavi in derapata. Erano prove di abilità. Come quella di scendere le scalinate della città rimanendo in sella. Oppure, grande prima conquista, quella di andare senza mani sul manubrio. Inutile dire che si cadeva spesso. Ma per questo noi beneficiavano dell’assistenza del dottor Sacco, il farmacista. Meglio non tornare a casa spellati, i genitori si sarebbero infuriati. Allora andavamo da lui a farci medicare alla buona, qualche benda, un cerotto. Tanto poi quelle “ferite” la mamma le scopriva lo stesso al momento di fare il bagno, ma almeno il peggio era passato.
Insomma, la bici era un bene prezioso, mica un giocattolo...
Proprio così. E dovevamo averne cura. Ad esempio, dovevi imparare a cambiare la camera d’aria quando bucavi la gomma. Allora succedeva spesso, mica le strade erano tutte asfaltate. Allora armeggiavamo con la camera d’aria dentro una bacinella d’acqua per individuare il buco dalle bollicine che uscivano, poi si doveva asciugarla ben bene, prendere la pezza e attaccarla col tenaccio, il mastice. Era un lavoro… E poi le biciclette te le potevi anche costruire da solo, pezzo per pezzo: compravi il telaio, poi le ruote, i pedali, il manubrio, la sella e così via. Un mio amico aveva deciso di fare anche lui così: ma per prima cosa si era comprato i guantini traforati. Era un tipo bizzarro…
Comunque la bici, diceva, che in bici non ha mai smesso di andarci.
Certo che ci vado ancora. Da qualche anno, per fortuna, a Torino grazie alle ciclabili si può andare quasi dappertutto e si è anche un po’ più sicuri. E a noi ciclisti ci guardano meno male che un tempo. Pensi che anni fa, quando facevo il regista in Rai, mi capitava di dover andare a lavorare allo stadio, che allora era il Comunale, per la ripresa di qualche partita. Ci andavo sempre in bicicletta. Tutte le volte era la solita storia. Gli addetti all’entrata mi vedevano arrivare in sella e non volevano farmi entrare. Mi guardavano con sufficienza, e anche con un po’ di sospetto. Possibile che uno che lavora alla Rai non abbia la macchina e arrivi in bicicletta? Si convincevano soltanto quando alla fine tiravo fuori il tesserino Rai. Però mi dicevano: “Guardi che però non può mica parcheggiare la bicicletta dentro lo stadio: le macchine sì, ma le bici stanno fuori…”. Anche adesso, a dire il vero non è che a Torino ci siano molti parcheggi per le bici, eh… Nelle città emiliane, ad esempio, davanti alle stazioni ci sono tanti comodi posti dove legare le biciclette. Qui a Torino niente, né a Porta Nuova, né a Porta Susa. Bisogna migliorare. E migliorare anche nel tutelare la sicurezza dei ciclisti. Certo, anche loro devono essere più prudenti. Quando vedo sfrecciare i… come si chiamano… i rider in mezzo al traffico, magari di sera senza luci e qualche volta senza rispettare i semafori, mi vengono i brividi. Poi penso: chissà, poi magari qualcuno di loro diventerà il Fausto Coppi del futuro. Anche lui scoprì di andare forte in bicicletta facendo il garzone di salumiere a Novi Ligure.
Ma nella sua lunga storia di giornalista RAI non ha mai lavorato per una tappa del Giro?
No, non mi è mai capitato. Però da giovane mi hanno mandato qualche volta, con l’esterna di Torino, che copriva anche la Liguria di Ponente, alla Milano-Sanremo: facevamo trasferte di due giorni, per riprendere 30 secondi di arrivo…
Ha visto che dopo la prima tappa di Torino il Giro fa ancora molta strada in Piemonte?
Ho visto, ho visto. Ho visto che nella tappa da Stupinigi a Novara passano per Santena, dove è sepolto il Conte di Cavour. Ma lo sa che cosa accomuna Cavour a Coppi? Entrambi, pensi, sono morti di malaria. Coppi l’ha presa in Africa e il conte di Cavour l’aveva contratta da giovane nelle risaie del Vercellese, dove la famiglia aveva vaste proprietà agricole. Soffrì tutta la vita di ricorrenti febbri e alla fine morì di quello.
E poi ancora, nell’ultima settimana del Giro si toccano posti che lei, celebre battitore di provincia piemontese, conosce bene: la Valsesia e l’alto Lago Maggiore.
E già. Sopra Verbania, da dove parte la penultima tappa, si trova la val Vigezzo. Qui, a S. Maria Maggiore, dal 2016 faccio il direttore artistico di un Festival Letterario che si chiama Sentieri e Pensieri. Capita spesso che si parli anche di ciclismo. Quanto alla Valsesia, al Sacro Monte di Varallo, ci ho mandato il protagonista del mio ultimo romanzo, La confraternita dell’asino (Manni Editore): si chiama Delfino Malvasia, un reporter di provincia che finisce in mezzo a una bizzarra storia di reliquie, pellegrinaggi e marketing turistico. Ma lì si cavalcano asini, e non biciclette.