Parla Helios Herrera, figlio del “Mago”
Così è nato il Barça che oggi vuole ritrovarsi
"All'epoca nessuno faceva domande, se mi aggregavo ai ragazzini della cantera". Herrera Jr. ricorda e dà forma ai sogni della nuova presidenza Laporta
Fue un club. Per capire da dove riprenderà il nuovo corso barcelonista di Joan Laporta, basta parlare con il bambino giusto. Classe 1972, qualche partitella alla Masia pochi mesi dopo la sua fondazione – “allora era tutto così facile e informale” – e la testimonianza di un momento clou – più da anni di piombo che da annali del calcio. Helios Herrera è il figlio del Mago della Grande Inter. Ma per questioni anagrafiche ha vissuto soprattutto il Barcellona, dove Helenio chiuse la carriera da allenatore tra il 1980 e il 1981. “A 70 anni suonati”, racconta per il Foglio sportivo quel ragazzino, oggi professore di Economia alla University of Warwick (Uk). “Aveva quasi smesso, ma per i blaugrana – già due campionati in bacheca un decennio prima – fece uno strappo. Abitavamo in un albergo vicino al Camp Nou e ogni tanto andavo a vedere le sue partite. Era uno stadio alla mano”, in fase di ristrutturazione per il Mundial, ancora senza museo. “Mi mettevo dietro la panchina del papà: gli urlavo e gli urlavo fino a quando lui mi sentiva, si voltava e mi salutava. Sarei diventato io la sua ultima squadra, qualche anno dopo”.
Nel ritiro veneziano di Herrera: “Oltre alla copertina glamour, l’allenatore fa una vita totalizzante”, spiega Helios. “Non è facile ritrovarsi dal campo al calcio in tv da un giorno all’altro: così lui ha tenuto viva la sua passione attraverso di me. Mi allenava duro. Alla domenica per le mie partite arrivava dopo e andava via prima. Come un vero osservatore. E infatti io dovevo giocare bene sempre. Guai se no”. In Catalogna era diverso. “Più libero. All’epoca, mentre papà lavorava, nessuno faceva domande se mi aggregavo ai miei coetanei nel club per qualche amichevole. I blaugrana erano ancora in fieri, un po’ succubi del Real. La cantera un concetto primordiale”. Come la Masia, casolare del 1702 attorno a cui stava per sorgere l’incubatore di futbol più famoso al mondo. “Eppure oggi l’hanno snobbato, spendendo una valanga di soldi – che tintinnio stridulo i 105 milioni per Dembélé, dopo un altro flop in Champions – per calciatori sopravvalutati. Un’ossessione. Ridare spazio alla cantera permetterebbe di uscire da una pesante crisi finanziaria: quello coltivato in casa blaugrana resta pur sempre talento puro. Frutto di un sistema avanzato, con capillari operazioni di recruiting su scala globale. Quarant’anni fa invece Helenio Herrera andava personalmente in giro a sondare ogni giocatore. Da uomo della frontiera”.
Alcune intuizioni del Mago però resistono. “Il rituale del ritiro. In montagna, con le famiglie. Viaggiavo spesso con quel Barça: papà a pranzo con Nuñez e Gaspart”, il presidente e il vice, “io a giocare con i loro figli in giardino. Altre volte però ero il solo ragazzino della comitiva: chi mai poteva venirmi a parlare? Fu lì, tra un allenamento e l’altro, che conobbi Quini”. Al secolo Enrique Castro Gonzalez, goleador di razza scuola Sporting Gijon e maturità al Barcellona: un po’ il David Villa dei primi anni Ottanta. “Una persona per bene. Era l’unico a sapermi coinvolgere, paterno e più maturo degli altri”. Si capisce allora che per Helios fu una scossa particolare, quell’1° marzo 1981: dopo un 6-0 contro l’Hercules al Camp Nou, con tripletta dello stesso attaccante e i blaugrana in piena corsa per il titolo, Quini fu misteriosamente rapito. “In origine l’obiettivo era mio padre”, rivela Herrera Jr. “Me lo raccontò lui stesso anni dopo. La sua salvezza fu il suo essere selvatico, irascibile, incline a reagire: se avessero sequestrato lui, chissà come sarebbe finita. Quindi virarono sulla gentilezza di Quini”. Erano tempi di fuoco: nemmeno una settimana prima la fragile Spagna post-franchista era scampata al golpe Tejero. Così, nella commozione culminata con la liberazione di Quini 25 giorni dopo, quella vicenda fece del Barça un collante nazionale. Incredibile a dirsi, oggi.
“Del catalano ho una memoria sonora”, continua Helios, quattro lingue nel cv e globetrotter come il papà. “L’ho imparato negli anni per curiosità, più che lì a scuola. A Barcellona il forte senso di appartenenza c’è sempre stato. Ma non si percepiva l’attuale acredine indipendentista, esplosa in modo forse irreversibile”. Vi è rimasto invischiato anche il club. “A me non piace il calcio, amo il Barça, mi dicono gli amici. L’evoluzione politica però è separata dal declino societario. I blaugrana devono ritrovare una visione e mettere da parte le tendenze speculative. Vecchie come lo sport, in qualche misura: Herrera mi raccontava sempre di alcuni dirigenti un po’ truffaldini, che non gli andavano giù perché volevano appioppargli certi giocatori solo per questioni di plusvalenze e accordi con gli agenti. Ben prima di Rosell o Bartomeu”.
C’è un dettaglio su tutti che racchiude l’insediamento di Laporta da presidente: la mascherina oranje con il 14 di Cruijff. Tra mille altri numeri, il grande ideologo che rivoluzionò la Masia. “Laporta lanciò Messi e Guardiola”, Helios segue a distanza. “Ripartire da lui è un buon segno. Le aspettative sono giganti, ma serve pazienza. I momenti bui fanno parte della storia di ogni club”. Il fatto è che il Barça è més. O almeno studia per ritornarlo.