Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza
L'imputato del nulla
È stato per sfuggire alla mattanza dei social network e dei tifosi che Prandelli ha scelto di lasciare. Non per sottrarsi ad una critica oggettiva, anche severa, ma circostanziata, motivata, civile
Le nostre azioni, in molti casi, ci assomigliano. Se decidiamo di vivere un’esistenza di luce ma dentro un caldo insopportabile, l’inferno del giudizio sommario, prima o poi ci spunterà una ruga sulla fronte; che diventeranno due, tre, fino a piegarci il viso e renderlo vecchio in un veloce trascorrere del tempo. Perché il calore brucia la pelle, la rende secca, inspessita. È quello che stava succedendo a Cesare Prandelli: si stava orrendamente accartocciando, come una fisarmonica rotta, stonata, su cui un bambino malizioso stava disegnando due occhi, la bocca e un naso, giusto per riconvertire il gioco, lo strumento ormai inutile, in qualcosa di simile a un pupazzo. Così in mezzo ad un battito di cuore incontrollato, la paura di uno stupido choc dovuto al calcio – sic, il calcio, non più uno sport ma la moneta del potere e il sollazzo della gente – l’allenatore della Fiorentina ha scelto di evadere da quell’inferno per ritrovare un respiro meno affannoso, dentro la natura, il mondo circostante. Che esiste ancora, non lo sapevate?
La domanda è rivolta a chi vive prevalentemente dentro una realtà virtuale, chiamata social: la massa parlante, quella che in modo subdolo si è insinuata nella nostra terza dimensione, già di per sé ossessionata da paure ancestrali, ergendosi a protagonista e giudice della vita di tutti. Si è messa lì, al centro, formando una piazza ricolma di persone apparentemente normali, viste da lontano, dall’alto, ma che, avvicinandoci con lo sguardo, scopriamo essere mostruose, identiche nella loro volgarità. E da questa piazza ha sollevato piccole voci, trovando presto il sostegno quasi istantaneo di altre voci, e di altre ancora. Non semplici parole, ma slogan, insulti, sciabolate offensive piene di sangue che hanno macchiato di rosso tutto ciò che c’era intorno, fino a rendere quella piazza un’unica distesa di porpora. È stato per sfuggire a quella mattanza che Prandelli ha scelto di lasciare. Non per sottrarsi ad una critica oggettiva, anche severa, ma circostanziata, motivata, civile. Perché questo, ormai, non accade quasi più. Ma per una forma di difesa personale, dal tentativo di annullarlo come persona, prima che come professionista del pallone, in maniera del tutto gratuita e arbitraria. Vi chiederete da dove provengano simili certezze. Non le ha raccontate lui, il protagonista, che ha scelto di abbandonare la scena immolandosi, per sopravvivere e darsi un futuro nella città che ama. Le raccontiamo noi, ogni giorno, quando leggiamo di persone massacrate dalle parole, vittime di processi fabbricati sul niente. Gli imputati moderni, indifesi, colposi senza una colpa, inchiodati ad una sbarra dentro un piccolo telefono.