Un'illustrazione della prima partita di rugby della storia (via Wikimedia Commons)

Quando il rugby divenne internazionale

Marco Pastonesi

Centocinquant'anni fa la prima partita tra due squadre nazionali. Ci vollero otto anni per decidere le regole del gioco e uno per fissare la data di Scozia-Inghilterra

Otto anni per decidere le regole del gioco e uno per fissare la data della partita. Il 27 marzo 1871. Un lunedì. A Edimburgo, in Scozia. Sul campo dell’Edinburgh Academical Cricket Club, in Raeburn Place. Scozia-Inghilterra. Il primo incontro internazionale di rugby. Il Big Bang.

La genesi, nel 1823. Un’iscrizione nella Rugby School di Rugby, 136 chilometri a nord-ovest di Londra, “ricorda la prodezza di William Webb Ellis, che ignorando le regole del football come giocato a quel tempo per primo prese il pallone fra le sue braccia e corse con quello dando così origine alla distintiva caratteristica del gioco del rugby”. E se poi non andò proprio così, se Ellis non fu il primo a giocarla con le mani invece che con i piedi, amen. Da imbroglione a pioniere, da trasgressore a inventore, la storia è stata generosa con lui.

 

La verità è che ogni scuola aveva un suo modo, e una sua disciplina, per giocare a pallone. Nel numero dei componenti delle squadre, tanto che a volte si arrivava addirittura a cento, una sorta di tutti-contro-tutti. Nel modo di segnare, anche se più o meno tutti erano d’accordo sul portare il pallone oltre la linea del campo avversario. Nella quantità dei punti assegnati a ogni marcatura. La sensazione è che le regole si modificassero in base alle dimensioni dei campi in cui si disputavano gli scontri-incontri. Insomma, poco era cambiato da quando i soldati dell’antica Roma si sfogavano cercando di conquistare il possesso di una vescica animale, l’harpastum, l’antenato dei Tango sferici e dei Gilbert ovali.

La verità è che proprio nella Rugby School si codificò quel particolare gioco del pallone. Per tentare di renderlo meno barbaro, concedere possibilità non solo ai grandi e grossi ma anche ai magri e svelti, fissare limiti nel tempo e nello spazio. Ed è così che i vecchi Rugbeians, gli allievi del liceo poi diventati universitari (a Eton, Cambridge e Oxford) o lavoratori (nel Regno Unito, anche in Australia e Nuova Zelanda), si trasformarono in apostoli e missionari di quel football che avevano imparato a praticare non solo come liberazione muscolare, ma anche come materia scolastica, un po’ educazione fisica e un po’ civica. Proprio nella Rugby School nacque la consuetudine di assegnare un cappellino ai giocatori, e i giocatori lo arricchivano con le date e altri dettagli delle principali partite disputate. Ancora oggi la presenza in match ufficiali è denominata “cap”.

 

Nel 1870, finalmente, si sentì l’urgenza di una prima “guerra pacifica” fra inglesi e scozzesi. L’esordio – pare – al Kennington Oval di Londra, la casa del Surrey County Cricket Club. Ma la formazione scozzese contava su giocatori che, con la Scozia, avevano vaghi legami: ce n’era uno che sosteneva che, forse, uno dei nonni era stato una volta in visita in Scozia. Finché fu indicata quella data, il 27 marzo 1871, e quel campo, al Raeburn Place di Edimburgo. Si trattava dell’antica proprietà di un pittore ritrattista, Henry Raeburn, dove accanto a caseggiati e ville, c’erano anche il campo degli Academicals e il Grange Cricket Club. Stavolta la Scozia si presentò al meglio, selezionando i giocatori dopo due allenamenti, invece l’Inghilterra fu costretta a scegliere i suoi rappresentanti solo fra alcuni club di Londra. La Scozia puntava sugli avanti, i giocatori di mischia, tanto da considerare un atto di vigliaccheria allargare il gioco ai trequarti, invece l’Inghilterra, che contava proprio sulle aperture ai trequarti, si smontò scoprendo che il campo era largo solo 50 metri. La Scozia era supportata da quattromila tifosi, che invasero le tribune, l’Inghilterra giunse allo stadio dopo aver viaggiato in treno tutta la notte. La Scozia si concesse addirittura il lusso di prestare all’Inghilterra alcuni dei suoi giocatori.

Due tempi da 50 minuti, 20 giocatori per squadra, due arbitri. Il Big Bang. La Scozia vinse 4-1: una meta e un calcio contro una meta. La meta, come adesso, dava la possibilità di effettuare (“try”: prova) il calcio (“goal”: obiettivo), ma era il calcio quello che contava di più: tre punti il calcio, uno la meta. Venti anni dopo, uno dei due arbitri, lo scozzese Almond, scrisse: “Lasciatemi fare qui una confessione personale. Io ero arbitro e in questo giorno non so se la decisione di concedere la meta alla Scozia, da cui sarebbe nato il calcio vincente, fosse effettivamente corretta... Ma devo dire che quando un arbitro ha un dubbio, penso che sia giustificato decidere contro la squadra che fa più rumore. Quella probabilmente sta dalla parte sbagliata”. La rivincita, nel 1872, al Kennington Oval, rovesciò il risultato: l’Inghilterra, con una squadra più forte e un campo più largo, s’impose con due calci e due mete a un calcio. Quello stesso anno William Webb Ellis morì a Mentone, in Francia, e si disputò il primo dei Varsity match, gli incontri fra Cambridge e Oxford (vittoria di Oxford per un calcio a zero).

 

Oggi il più conservatore degli sport (la prima Coppa del mondo nel 1987, l’ufficializzazione del professionismo nel 1995) è il più all’avanguardia: nell’uso della moviola in campo, nel continuo aggiornamento del regolamento per renderlo più spettacolare ma anche più sicuro, nel salvare quei valori (due su tutti: il rispetto e il sostegno) che lo hanno da sempre caratterizzato, anche per le regole stesse del gioco (l’unico che ammette di passare il pallone con le mani soltanto indietro: significa avere sempre i compagni – appunto – in sostegno, in aiuto, in soccorso, anzi, in pronto soccorso). E non è un caso che il rugby, così educativo, sia giocato insieme da bambini e bambine, promosso contro il bullismo e diffuso nelle carceri. È anche tra gli sport più allegri e fantasiosi, squadre costruite come social club. “I primi 10 minuti – parole di un allenatore ai suoi giocatori prima di entrare in campo – voglio un quarto d’ora di follia”. E Claudio Bisio: “Al pub, con i compagni di squadra, dopo il primo allenamento di rugby della mia vita, ho ordinato una birra. Piccola, ho aggiunto. Si sono bloccati tutti, in un silenzio improvviso. Fino a quel momento mi avevano accolto benissimo”.

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