Setteperuno
Addio a Massimo Cuttitta, padre costituente della Repubblica italiana del rugby
È morto a 54 anni il pilone che fece grande la Nazionale che conquistò il Sei Nazioni. Una vita passata in campo e in mischia per tenere separata la luce dalle tenebre
Il primo giorno il dio del rugby creò i piloni. Li creò per tenere separata la luce dalle tenebre, poi il cielo dalla terra. Li plasmò solidi, li forgiò resistenti, li modellò duri. Poi vide quanto aveva fatto ed ecco, era cosa molto buona.
Piloni. Le due colonne della prima linea. Base, fusto e capitello, anche in gerarchia di valori, in ordine di importanza. Se la mischia fosse una casa a tre piani, e lo è, i piloni sono le fondamenta e il pianterreno. Affondano, abitano, campano – insomma: vivono – nella zona caldaia, cantina, taverna. E’ lì che tengono separata la luce dalle tenebre, il cielo dalla terra. Il loro rugby è tutte le voci del verbo spingere. Le prime sono recitate, come in una messa cantata, dall’arbitro: da “crouch, touch, pausa, engage” (bassi, tocco, pausa, ingaggio) a “crouch, touch, set” (bassi, tocco, via) fino a “crouch, bind, set” (bassi, legati, via), perché anche la messa si aggiorna, si semplifica. I due piloni, e il tallonatore crocefisso fra di loro, si caricano la squadra sulle proprie spalle come il titano Atlante si genufletteva per sollevare il mondo. E poi spingono. Una battaglia rimasta ai tempi delle trincee e nel tempo delle trincee. Così che c’è da capire quell’allenatore che ai suoi piloni non mostrava solo gli spezzoni con il francese Paparemborde o l’inglese Leonard, ma anche i film “All’ovest niente di nuovo” e “La grande guerra”.
Massimo Cuttitta era un pilone. Sinistro. Se quello destro ha la testa fra due teste, le spalle incastrate, quello sinistro ha metà testa e una spalla libere, libere per scardinare il suo diretto avversario. Indossa il numero 1. Non è un caso. E’ come se il primo giorno William Webb Ellis (o il teologo Thomas Armold, suo rettore nel Rugby College) avesse affidato al pilone sinistro il compito di tenere separati non solo la luce dalle tenebre, ma anche il rugby dal calcio, nonché i due pacchetti di mischia, con la possibilità di attaccarsi e anche attaccare. Una partita nella partita, uno sport nello sport, una vita nella vita. I piloni – sostengono in Galles – vanno tutti in paradiso. Perché qui sulla terra, e sotto terra, hanno già patito le pene dell’inferno. E perché, sembra impossibile, sembra incredibile, ma anche i piloni muoiono.
Massimo è morto, ieri, di Covid-19. Come se fosse crollato il Colosseo, come se si fosse prosciugato il Po, come se i piloni non fossero riusciti a tenere separati il giorno e la notte. Impossibile, appunto. Incredibile, appunto. E invece, proprio così. Un metro e ottanta per 110 chili, diventati 140 a forza di frequentare caldaie, cantine e taverne, a furia di insegnare la bellezza e la durezza, cioè l’arte, della prima linea. Cinquantaquattro anni passati a giocare e allenare, se non dovunque, quasi. Famiglia di origine napoletane. Papà Carlo, ingegnere, mamma Nunzia, mamma, appunto, tre figli, Michele il più grande, poi Marcello e Massimo, gemelli. Quasi gemelli. Più svelto Marcello, più robusto Massimo. Tanto che, emigrati in Sud Africa per il lavoro di papà Carlo e integrati nella squadra di rugby della Pinetown Boys High School, Marcello, che correva 200 e 400, fu sistemato all’ala, e Massimo, che gettava peso e lanciava disco, piazzato pilone. E se il pilone equivale a un seminterrato, l’ala alla veranda, al balcone, al terrazzo. Massimo subito a sinistra. L’unico posto rimasto libero. Mica facile tenere separati il cielo dalla terra, e il rugby dal calcio. Lui ci riuscì con la disciplina impartita dallo sport, cinque chilometri di corsa per tornare da scuola a casa per pranzare e altri cinque per tornare da casa a scuola per allenarsi, e questo era solo il riscaldamento. E le corse sulla collina, e le sedute in palestra, e i compiti a casa, e i lavori sul campo, e le partite in trincea. “Mouse”, lo chiamarono i compagni: quel parallelepipedo, quando correva a zig zag, sembrava un topo impazzito. Più che topo, pantegana.
La svolta nel 1985. Invece del servizio militare (era il Sud Africa dell’apartheid, Nelson Mandela in prigione a Robben Island, gli Springboks esclusi dalle competizioni), un aereo per L’Aquila, dove il rugby era (adesso meno) un vaccino di umanità, un codice di appartenenza, una lezione di patriottismo, un certificato di esistenza in vita. Mentre Marcello volava in meta, Massimo imparava il mestiere da Cico D’Onofrio e Giancarlo Cucchiella, cerberi, guerrieri, gladiatori. Cucchiella, si raccontava, teneva insieme il ginocchio con il nastro adesivo. Poi Milano, anzi, il Milan, quello di Berlusconi. Una squadra stellare, con Dominguez e Campese. E il binomio con Franco Properzi. Massimo a sinistra, Franco a destra. Più che una prima linea, un tempio. Anche in Nazionale. E che Nazionale. Quella che avrebbe sconfitto la Francia, quella che avrebbe battuto l’Irlanda, quella che ci avrebbe introdotto al Cinque Nazioni, quella che debuttò al Sei Nazioni superando la Scozia reduce dal Grande Slam del 1999. Se Maci e Lanfranchi erano stati Garibaldi e Mazzini, se Bona e Bollesan erano diventati Pirandello e D’Annunzio, i gemelli Cuttitta erano fra i padri costituenti della Repubblica italiana del rugby.
Quattro scudetti e una Coppa Italia con il Milan, una Coppa Europa per nazioni (abbattendo la Francia), una Currie Cup con il Natal (unico italiano ad aver mai vinto il massimo torneo sudafricano), un campionato negli Harlequins (primo italiano nel massimo torneo inglese), apparizioni anche nei Barbarians (il resto, anzi, il meglio del mondo ovale), 69 partite in maglia azzurra, mille battaglie, mille racconti, fra i mille questo raccontato da Francesco Volpe in “Props” (Absolutely Free). E’ il 1999, l’Italia si rinnova, cambio di allenatore, dal francese Georges Coste al neozelandese Brad Johnstone. “Vieni al raduno – fa Johnstone a Massimo – ti devo parlare”. Tirrenia. “Domani facciamo 60 mischie dal vivo. Se metti sotto tutti i tuoi avversari diretti, il posto è tuo”. Una stretta di mano sancisce l’accordo. Il giorno dopo, un’altra stretta di mano ufficializza il posto di titolare.