L'Europa degli altri. Ha ancora senso parlare di “calcio italiano”
Come ogni anno questo è il momento nel quale squadre e commentatori s'interrogano sul motivo del proprio fallimento europeo
“Voi siete qui”, come la scritta sui cartelloni per turisti storditi e sperduti che cercano il puntino rosso delle proprie certezze sull'enorme cartina europea. Anche questa primavera l'Italia cerca sé stessa sulla mappa e si ritrova sul marciapiede, estrema e depressa periferia di un calcio felicemente lontano da noi, e felicemente altro da noi.
Nelle illusioni da spiaggia dello scorso agosto spopolava il modello tedesco: erano ripartiti dalla pandemia prima degli altri e avevano portato in semifinale due squadre e tre allenatori. Due anni fa ci si lustrava gli occhi per l'Ajax giovanissimo, equo e solidale, i cui tre migliori giocatori (De Ligt, De Jong e Van de Beek) furono prontamente saccheggiati da tre squadre che nel 2020 e nel 2021 alle semifinali di Champions non ci si sono nemmeno avvicinate. E prima ancora il kloppismo, il cholismo, il guardiolismo... Ogni anno a questo punto il calcio italiano s'interroga pensoso sul motivo del proprio fallimento, in un'eterna e infruttuosa seduta dallo psicologo che serve solo a spendere, male, altri soldi – e comunque sempre meno di quelli spesi negli anni da PSG, Chelsea e Manchester City, o di quelli che spenderà il Real Madrid l'estate prossima. Noi suggeriamo che il tavolo dovrebbe essere ribaltato ma per davvero, a cominciare dal concetto di fondo, dal momento che non ha più molto senso nemmeno parlare di “calcio italiano”: Chelsea, Manchester City e PSG hanno proprietà extra-UE e allenatori stranieri, e anche il Real Madrid, unico barlume superstite di aristocrazia, di spagnolo ha solo il presidente e il capitano e tutt'intorno è un brulicare di culture e contaminazioni diverse, dal Belgio alla Croazia, dal Brasile alla Germania per finire ovviamente con la Francia del suo stoccatore principe e del suo allenatore anti-divo – eppure Zidane ne avrebbe di motivi per darsi delle arie.
Se nel 2020 potevamo illuderci che con programmazione e un po' di fortuna potevamo trovarci anche noi perlomeno al posto del Lipsia e del Lione (e del resto l'Atalanta c'era arrivata vicinissima), il 2021 ci ributta giù comicamente, avviliti come Willy il Coyote mentre sprofonda in un nuovo burrone. Come nelle migliori opere di Mel Brooks, l'effetto comico nasce dall'esagerazione grottesca che facciamo, volontariamente o meno, delle qualità espresse dal nostro campionato. Così un progetto audace e moderno come il Milan dei giovani viene sverniciato dal Borussia Dortmund che schiera impunemente i 2002 e i 2003, e segnano pure. Così l'idea juventina dell'allenatore fatto in casa, alla Zidane, si rivela un progetto di cartapesta, mentre lo Zidane originale “non sbaglia un film” per dirla alla Luca Carboni. Così il medio-man De Zerbi, feroce collezionista di ottavi posti, viene venduto come il nuovissimo che avanza, mentre il 33enne Nagelsmann è già in odore di Bayern Monaco. Così i primi sei allenatori del torneo non mettono insieme nemmeno una semifinale di Champions e probabilmente non lo faranno mai, per limiti tattici, tecnici o semplicemente anagrafici, perché persino il serial winner Antonio Conte (che anche dalla Champions di quest'anno è scappato a gambe levate) ha ormai 51 anni, un'età in cui solitamente si tende a diventare più reazionari che rivoluzionari.
Ecco, sì: se il concetto di “calcio italiano” non ha ormai molto senso, forse è meglio concentrarsi sul paesaggio. Molto più sereno e gioioso quello europeo, senza l'ombra di una polemica dentro quarti di finale tiratissimi in almeno tre casi su quattro, che nel caso di PSG-Bayern ci hanno volentieri costretto a scomodare il concetto di “piacere” associato a una partita di pallone. I giocatori si divertono, gli allenatori si divertono, i tifosi non schiumano rabbia a ogni pareggio in trasferta e anche i cicli che finiscono (Liverpool?) atterrano con la leggerezza di una piuma, senza le nostre isterie pavloviane. Per forza poi sono tutti più riposati, scattanti e pronti all'azione. Le sedici squadre qualificate ai quarti di Champions ed Europa League non hanno un solo tecnico italiano, come già era successo nel 2016. Per trovarne uno attualmente in serie A che possa vantarsi almeno di una semifinale di Champions, bisogna scorrere la lista fino all'antico Ranieri, con il primo Chelsea di Abramovich nel lontano 2004. E i tre allenatori italiani arrivati più lontano in Europa nell'ultimo quinquennio hanno curiosamente una cosa in comune: sono tutti e tre disoccupati.
I loro nomi sono Massimiliano Allegri, finalista Champions 2017 che da una vita si dice pronto a tornare; Eusebio Di Francesco, semifinalista Champions 2018 e precocemente appassito da tre esoneri consecutivi; Maurizio Sarri, vincitore Europa League 2019 con il Chelsea, trattato come un appestato dalla Juve nonostante uno scudetto per nulla banale. Tre indizi fanno una prova? Il trionfo dell'Inter di Conte a passo di record sembra celebrare la discontinuità del calcio italiano rispetto al resto d'Europa: solo da noi il campionato è più importante delle Coppe, solo noi suggeriamo alle nostre squadre di farsi buttare fuori dalle Coppe per concentrarsi sulla qualificazione ad altre Coppe da cui ci faremo buttare fuori anche l'anno prossimo. La sola squadra italiana ancora in corsa, la Roma, è allenata dall'unico vero tecnico straniero della serie A (Mihajlovic e Juric hanno iniziato da “italiani”), regolarmente svillaneggiato dalla stampa “amica” più o meno da un anno e mezzo. Il resto è un prodotto da vendere a tutti i costi, sempre più difficile da vendere, sempre più balcanizzato, in cui siamo tutti costretti a fingere eccitazione per “la volata Champions più incerta di sempre” (ahimè, s'è letto anche questo). Sullo sfondo le vestigia del grande calcio che fu, sempre più sbiadito e lontano, in un'Italia da Grande Gatsby: così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato.