Il Foglio sportivo
Come è difficile narrare il calcio
I libri sul pallone sono spesso deludenti. A volte però...
Èla storia del Gordo. Il suo vero nome è già una preghiera, o un tango, o un Sarti Burgnich Facchetti: Santiago Ramiro Rodriguez, detto “el Gordo”, il grasso, per via di un ventre sporgente e gonfio di “fernecito”, matrimonio sudamericano di Fernet e Coca-Cola, se non gonfio di rum, cresciuto nel barrio Capurro di Montevideo, professione fantasista uruguagio, tradito nella vita da cavalli lenti e donne veloci. Ma sul campo, Gordo “illumina. Bluffa e dribbla, con la pelota che gli resta appiccicata al piede. Con quella sua maniera di correre che sembra sempre sul punto di cadere, un surfista che sfiora l’onda con la schiena ma poi ritorna dritto sulla tavola, con un colpo di reni”. Il calcio inteso come “un fugace momento di perfezione condiviso”.
È la storia di Morelli. Dottore, nel senso di medico fisiatra, fisioterapista e manipolatore, plurilaureato con lode. Strada facendo, anche preparatore e riparatore atletico nonché guardia del corpo. Taglia XL, “non c’è niente che gli metta più ansia dell’idea di innamorarsi. Per lui amore è mettere radici, ma la sua è una vita che radici non ha”.
È la storia di Tagliaferro. Mister. Ma prima era un difensore, svelto e ruvido, detentore del record di espulsioni per rosso diretto in Serie A. Adesso sergente di ferro: linguaggio triviale e clima di terrore nello spogliatoio, calcio muscolare veloce e intenso sul campo, teorico del pressing alto, attaccanti come primi difensori, profeta del coltello fra i denti. Possibilità di coesistenza con il Gordo? Zero, o quasi.
È la storia di Firicano. Direttore sportivo, anche se la qualifica ufficiale è ridicolmente riduttiva. Napoletano, dunque arte di arrangiarsi e arrangiare portata alla sublimazione. “Ci stanno due segreti per fare questo mestiere. Il primo è che devi essere rilassato”. E il secondo?, gli chiedono. “No grazie, ho esagerato con gli antipasti”. Poi si fa serio e spiega: “Il secondo segreto è che devi ruba’”, “Ogni tanto ruba qualcosa di cui non hai bisogno. Così, per il gusto di farlo. Per il brivido di essere scoperto”, “È il rischio che ti deve tenere in vita quando fai questo mestiere”. E Firicano rischia, esagera e abusa. In certi giorni si sente il padrone del mondo.
O forse è la storia di Laura, giornalista settore calcio, e di Marta, bancaria spregiudicata con e senza pattini, e di Aresu, addetto stampa reduce da anni come collaboratore a sette euro lordi il pezzo, e di Ines, e di Consuelo, e di un boss della malavita battezzato Juan Alberto Schiaffino, come l’antico fuoriclasse di Penarol, Milan e Roma. O forse è semplicemente la storia di Cagliari e della Sardegna, del Cagliari e di Gigi Riva, cos’ha voluto dire avere lì “il più forte attaccante del mondo”, “la gente non aveva che lui, lui non aveva che loro. Poteva scegliere di giocare in qualsiasi squadra, di vincere qualsiasi cosa, di guadagnare qualsiasi cifra, ma ha scelto noi. E il suo averci scelto ci rende orgogliosi di averlo sedotto, ci fa ricordare di essere stati speciali. Se non sempre almeno una volta, e per qualcuno di così speciale: il più forte di tutti”.
“Isla bonita” (di Nicola Muscas, 66thand2nd, 336 pagine, 17 euro) è la storia di un amore, di un grande amore, di un amore incommensurabile e inestinguibile. Il calcio. Quella magia che precipita come un fulmine, quel silenzio che fa trattenere il fiato a un intero stadio, quel segreto che straripa come uno tsunami, quella felicità – sì, felicità – che travolge come un uragano, “quella gioia primitiva e bambina tipica delle cose che sono futili e importanti al tempo stesso. Come una giornata di sole, come un bacio rubato a mezzanotte, come lo scudetto di Gigi Riva quando contro il Cagliari gridavano ‘BANDITI!’, ‘PASTORI!’, e Riva lo facevano incazzare e lui calava il suo castigo come un Dio vendicativo, scagliando fulmini e saette sotto forma di tiri mancini all’incrocio dei pali”. E come quando “Mameli crossa tagliato sul primo palo. Rodriguez va verso il pallone e tutti si aspettano che faccia l’unica cosa umanamente possibile: toccare appena per prolungare la traiettoria. Il Gordo invece salta e spalanca le gambe, lasciando che la palla ci passi in mezzo. Infine colpisce con il tacco destro. Gioco, partita, incontro”.
Il calcio, romanzi o film, in Italia non ha mai funzionato. Perché il calcio lo conoscono tutti gli italiani, tutti lo hanno giocato e respirato, fosse il campetto dell’oratorio o la Scala a San Siro. E la finzione la annusi, la riconosci e la detesti. Meglio un documentario, che scavi e spieghi. Meglio una biografia, che recuperi e tramandi. Meglio una confessione, come “Febbre a 90°”, in cui Nick Hornby non pensa calcio, ma si ossessiona di calcio e del suo – suo, proprio suo, ossessivamente suo – Arsenal. Meglio una canzone, poesia in musica, dove un bambino “cammina che sembra un uomo, con le scarpette di gomma dura, dodici anni e il cuore pieno di paura”. Invece Nicola Muscas – talento e quintali di buone letture – ci rende il calcio così com’è, vero, autentico, genuino anche nel suo marciume, sentimentale e spietato, erotico e maledetto, seducente e crudele, insomma: romanzato e reale. Perché sa di canfora sul lettino dei massaggi, sa di grida assassine dagli spalti, sa di sputi sotto porta. Così romanzato e così reale, che c’è anche Buffon, c’è anche Chiellini, c’è perfino Gianni Mura che in tribuna stampa, sulla sua Olivetti 32, picchia di gusto sui tasti: “Rodriguez è un rosso moderno che sa di mare e di vento. Possiede l’eleganza di un buon Carignano del Sulcis, l’istinto primordiale di un Cannonau d’Ogliastra. Alta gradazione, s’intende, per scaldare la gelida notte di un San Siro che piano piano ammutolisce e torna a casa sbandando. Ubriaco di buon calcio”.
“Isla bonita” è un giallo ambientato nel mondo del calcio. Ma è anche una di quelle partite di calcio così belle da rapirti: non fai a tempo a sederti che è già finita. Come se la scrittura fosse in discesa. Ti accorgi, più ti avvicini alla fine, di rallentare, frenare, centellinare.