Salvatore Cherchi tra Mike Tyson (a sinistra) e Lennox Lewis

Il Foglio sportivo

Il grande vecchio della boxe in Italia

Alberto Facchinetti

Il pugilato secondo Salvatore Cherchi, dalla Sardegna a Don King 

Ha gestito tredici campioni del mondo, ha organizzato decine di titoli iridati, sedendosi spesso a pochi centimetri dai capelli assurdamente elettrici di Don King. Da qualche settimana è nel consiglio federale del pugilato italiano. Salvatore Cherchi, classe 1952, è il grande vecchio della boxe nazionale. Gavetta con “il cardinale” Umberto Branchini, il primo manager moderno nostrano, nel 1982 Cherchi ha aperto con Giovanni Branchini (il figlio) la Opi, ancora oggi una delle società più importanti nel settore manageriale-organizzativo.

 

Il pugilato è entrato nella vita di Salvatore in Sardegna, dove è nato. Il papà è un appassionato di sport, il fratello Pino pratica la boxe. Insieme vedono combattere Burruni, Scano, Manca. Poi la famiglia si trasferisce a Milano e nel 1965 diventa un pugile novizio, nel frattempo è il più piccolo dei Cherchi a diventare bravo. Salvatore insegna al giovane Franco i primi rudimenti della nobile arte utilizzando dei calzini al posto dei guanti. Quando Franco entra per la prima volta in palestra, il maestro Curti gli chiede quanti match avesse alle spalle. Zero, ma ha un insegnante in casa come Salvatore. Franco diventerà campione d’Europa.

 

Salvatore fa il secondo tra i dilettanti e tra i professionisti, ma soprattutto affianca Branchini. “Mi mandava in giro per l’Europa con i suoi pugili a portare il secchio – racconta al Foglio Sportivo – io non parlavo mai ma ascoltavo tutto. Ho imparato così, Umberto era il mio idolo. Nel 1982 mi sono messo per conto mio”. Inizia così l’avventura da protagonista, prima con Giovanni, poi in solitudine quando il socio si è concentrato sul calcio, curando gli interessi anche di Ronaldo il Fenomeno.

 

Nel corso degli anni Cherchi ha organizzato tantissimi mondiali, di tutti tre sono quelli rimasti maggiormente nel suo cuore. Il 22 febbraio 1984 Loris Stecca conquista il titolo mondiale dei pesi supergallo WBA a Milano battendo il domenicano Leonardo Cruz. “È stato il primo campionato del mondo che ho organizzato completamente da solo, l’allestimento della sala, la paga ai pugili, tutto. Branchini era negli Stati Uniti per il titolo tra Luigi Minchillo e Thomas Hearns di qualche giorno prima. Io ero innamorato di Loris, un pugile stupendo che avrebbe potuto fare molto di più. Più tardi avrei voluto combattesse con Juan Meza invece lui voleva avere la rivincita con Victor Callejas, gli è andata male perché il portoricano era un gran picchiatore. Solitamente il pugile è un uomo orgoglioso e Stecca voleva vendicare in Italia la sconfitta subita in casa dell’avversario. In pratica è finita qui la sua carriera. Qualche settimana fa ci siamo sentiti per telefono, e ha ammesso che avrebbe dovuto ascoltarmi. I miei pugili ho sempre provato a farli ragionare, quella volta con Loris non ci sono riuscito”.

 

Nel 1989 la Opi organizza il titolo dei pesi massimi tra Francesco Damiani e Johnny Du Plooy. “Francesco è stato un grandissimo pugile. Fino a quel momento io e Branchini eravamo stati criticati perché non lo avevamo fatto combattere con rivali all’altezza e lui sembrava vincere sempre troppo facilmente. Quella di Damiani è stata una bella vittoria. Il titolo dei pesi massimi è… il massimo”.

 

Il terzo mondiale da ricordare è quello di Giovanni Parisi che nel 1996 riconquista la corona WBO battendo Sammy Fuentes a Milano. “Secondo me Giovanni è stato uno dei migliori pugili italiani di tutti i tempi”.

 

Cherchi ha lavorato con colleghi come Don King. Insieme hanno fatto Parisi-Chavez e un paio di incontri di Michele Piccirillo negli States. “Che litigate con Don, ma siamo amici. Lui è un gran cervello. Astuto, ha il pelo sullo stomaco. No, io non ce l’ho: la mia fortuna professionale è stata quella di essere sempre stato sorretto da una passione immensa per questo sport, cosa che mi ha dato il rispetto di pugili e addetti ai lavori. Io ho sempre trattato alla pari con tutti, ma negli Stati Uniti girano molti più soldi che da noi”.

 

Nella boxe ci sono tanti intrighi? “Non mi sono mai seduto a bordo ring già sapendo che un match fosse falsato in partenza. Però capita che durante l’incontro si capisca che un arbitro figlio di mignotta parteggi per uno anziché per l’altro. Quando si combatte all’estero dico sempre ai miei pugili di iniziare pensando di essere sotto di tre riprese. Funziona così anche in Italia, nel tempo mi sono capitati dei verdetti a favore di cui mi sono vergognato. In quel caso glielo dico subito in spogliatoio al mio ragazzo. Quando capita a te, rimani malissimo. Oggi con la mia esperienza è più difficile fregarmi”. Il 27 febbraio scorso con le elezioni che hanno visto diventare presidente Flavio D’Ambrosi, Cherchi è entrato nel consiglio federale. Si occuperà proprio degli atleti professionisti. Il campo in cui agisce da decenni, la conoscenza del settore sicuramente non manca. Potrebbe però esserci un conflitto di interessi visto che la Opi è la più importante società in Italia a livello organizzativo e manageriale. “Ormai la Opi viene mandata avanti dai miei figli Alessandro e Christian, che al massimo mi chiedono un parere. La società è talmente rodata che non ha bisogno di alcun favoritismo dalla Federazione e in ogni caso io non lo permetterei. Non sono quel tipo di persona, in queste cose sono sempre stato un ingenuo. Sono sicuro che non si creeranno problemi”. Anche se qualche polemica, all’interno di un movimento che non è più quello dorato dei decenni precedenti, sarà forse inevitabile.

 

Intanto oggi, venerdì 16 aprile, Opi Since 82 e l’inglese Matchroom tornano all’Allianz Cloud di Milano per una notte di boxe titolata con le sfide tra Fabio Turchi e Dylan Bregeon, tra Francesco Patera e Vladislav Melnyk e tra Ivan Zucco e Luca Capuano in diretta su Dazn.

 

“Se dovessi fare il nome di un giovane sui cui puntare in Italia – continua Cherchi – direi Mirko Natalizi. Ha il colpo del ko con cui può ribaltare qualsiasi incontro. È una caratteristica che si fa fatica a trovare in giro. È un ragazzo convinto dei propri mezzi, un vero pugile che non ha paura di nessuno. Può arrivare a un titolo mondiale, ma nella boxe serve anche avere la fortuna dalla propria parte. Inoltre ho avuto dei pugili che dopo un match incredibile, un titolo conquistato, sembravano aver dato tutto e si sono bloccati sia a livello fisico che a livello mentale”. Oggi il migliore pugile pound for pound è il messicano Canelo Alvarez. “Avevo la possibilità di prenderlo quando aveva 17 anni. Ma lui viveva a Guadalajara, io a Milano. Sarebbe stato uno sforzo economico enorme. Non so se oggi sarei ancora io a gestirlo, perché ci sono realtà all’estero che economicamente ti distruggono. Però so di aver sbagliato. Sono stato molto vicino anche ad un altro grande come Chocolatito, ma l’investimento anche in quel caso era troppo elevato. Sono andato da lui in Nicaragua. Ma un minimosca ha bisogno di avversari che qui non si trovano. Per costruire la sua carriera avrei dovuto far arrivare dal Messico e dai paesi latini sempre pugili diversi e sarebbe stato insostenibile”. 

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