Lo spettacolo del '900
Il calcio territoriale, sociale è già cambiato. Ma perché buttarlo per un futuro fatto di highlights?
Socialità, territorio, sport di massa. Forse vale la pena salvarli
Ad esempio qualche giorno fa è partita da Firenze, destinazione Dubai, una copia in 3D del David. Grande e grosso tanto quanto, però forse anche più bello dell’originale e in grado di fatturare un sacco di euri in tournée. Anche più di quelli che attirerebbe a Firenze, città del resto atrofizzata dal vecchismo, persino nel calcio: alla Viola tocca giocare, per dire, in uno stadio inadeguato di cent’anni fa. E dunque, perché non dovrebbe andare bene, essere più ricco e più bello da guardare, un clone in 3D del football come lo abbiamo conosciuto finora – almeno dal Dopoguerra – in ogni città e borgo, meglio se depresso e industriale, d’Europa? O come abbiamo immaginato che venisse giocato di là dell’oceano, tra il Rio de la Plata e Rio de Janeiro? Quel calcio che i cinici chiamano romantico, e i romantici invece “pane e salame”, è stato per intere generazioni e popoli di maschi la felicità imparata nei campetti di periferia o di parrocchia. Il momento liberatorio di poter “pensare con i piedi”.
Una passione travasata nei tornei di scuole e fabbriche e santi patroni e poi sublimata nelle maglie di campioni cresciuti allo stesso modo e negli stessi posti: quelli della tua città, del tuo quartiere. Del tuo paese. Bene, quel calcio non c’era già più anche prima che dodici club ricchi o wannabe ricchi decidessero di volersi fare il loro campionato da soli. Per ricchi europei. Il calcio, sport e fenomeno di spettacolo sociale novecentesco, dunque forse intimamente inadeguato a sopravvivere nel Terzo millennio, era composto di pochi elementi alchemici: la territorialità (si gioca “al” campo, si va a vedere la partita “allo” stadio, si “appartiene” a certi colori). La condivisione sociale: si gioca ovunque, anche senza scarpe e senza porte, bastano tre regole. Poi questo gioco ancestrale, questo sport essenziale si trasforma – in ogni angolo d’Italia e d’Europa, persino Oltrecortina – in un movimento sportivo organizzato, più o meno sostenuto dallo stato o dalla filantropia. Un fenomeno di socialità di massa. Infine il tessuto economico locale. Ogni città ha il suo grande industriale-presidente, ogni piccolo centro il suo ricco benefattore o signorotto disposto a spendere in cambio di un po’ di lustro. Poi venne la televisione, che iniziò a trasformare tutto in luccicanti mitologie.
Oggi tutto questo non esiste più, da molto tempo. O per meglio dire non esiste più nelle stesse dimensioni sociali, nelle stesse ritualità e nelle stesse economie di scala. Ma ne persistono alcuni aspetti, che sono vitali e importanti – anche senza cadere nella retorica del pane e salame o in quella dei “valori dello sport” malamente sventolati in queste ore dalla Uefa e dalla Fifa. La domanda è allora se valga davvero la pena buttare al macero tutto questo – i campionati nazionali, le retrocessioni e le promozioni, la convivenza di piccoli e grandi, il sogno che una volta su mille ce la fa della squadretta che batte il gigante, che in fondo è il vero sogno di ogni sport. Buttare via il passato, e il presente, per salvare una dozzina o due di club che si sono gonfiati come la famosa rana, di soldi e trofei ma spesso anche di debiti e ingaggi senza logica, e che ora vedono non nel cambio delle regole, ma proprio nell’abbandono della vecchia storia con le sue regole, l’unica salvezza. Al di là dell’antipatia che i ricchi egoisti istintivamente suscitano (i visionari che fanno i soldi e contribuiscono col loro talento a migliorare il mondo sono un’altra cosa: qui non un solo soldino ricadrà nelle tasche del calcio povero, a meno di costrizioni da vincolo esterno), che è la stessa dei bambini che si portano via il pallone, ci sono fatti oggettivi.
Una Superlega come la immaginano rischia di diventare presto noiosa. Il mancato ricambio abbassa le aspettative. In più, il distacco territoriale (se la tua squadra gioca sempre a Manchester, mentre quella della tua città non potrà giocarci mai) produrrà disaffezione. E i miliardi di abbonati asiatici potrebbero anche sgonfiarsi: in Cina il calcio è già in crisi. Poi c’è il territorio. A chi interesserà più coltivarlo, a chi far crescere nuovi talenti? Nasceranno i vivai da ricchi, e agli altri gli scarti. C’è un’alternativa? Parliamo in queste pagine del modello tedesco: bilanci in ordine e un grande radicamento territoriale. C’è il caso del Belgio: se ora hanno grandi campioni è perché trent’anni fa hanno scommesso su scuole calcio della federazione su base territoriale, legando sport e nuove generazioni. Si possono fare più ricchi e belli i tornei europei: ma perché trasportarli in una bolla virtuale che li allontanerà dal pubblico, dal tifo organizzato, dalla possibilità di scommettere sul talento e sul territorio (sì, il modello Atalanta: perché no?). O forse chissà, il calcio spettacolo novecentesco è destinato a sparire, come il cinema, a farsi nicchia. Per tutto il resto ci sarà il digitale, e i ragazzi di oggi già preferiscono gli highlights ai 90 più recupero (sai che barba). A loro andranno bene i servizi premium offerti dalla Superlega. Al calcio, al calcio vero, continueranno a giocare in Africa. Poi forse un giorno verranno a bussare alla porta della Superlega. E vinceranno loro.