Il modello tedesco contro la Superlega
Debito “buono” per crescere o zero debiti per costruire? Rummenigge spiega perché per in Germania conta il rigore
C’è solo un dibattito calcistico più inconcludente di quello tra giochisti e risultatisti, ed è quello tra i fautori del calcio business e gli aficionados del calcio pane e salame. La storia economica del calcio è fatta in realtà da un dualismo molto più solido e logico. Per capirla, bisogna per prima cosa accantonare una questione molto di moda, ma inesatta e fuorviante, quella dei “debiti della pandemia”. Sarebbe per colmare l’ingente buco che i dodici club avrebbero accelerato la mossa estrema.
Non è esattamente così: l’indebitamento del calcio, in particolare di molti grandi club, è antecedente al lockdown degli stadi. Che il sistema come è stato gonfiato finora non fosse più sostenibile, era chiaro a tutti da anni. Il debito esiste da tempo, il modello di business e di sport ha bisogno di modifiche e di un rilancio: il punto è, appunto, come. Da un lato, per rubare l’espressione a Mario Draghi (che però non è sembrato sulle prime granché entusiasta del progetto Superlega, al pari di tutti i politici europei) bisogna fare “una scommessa sul debito buono”. Cioè, per curare la crisi da debito, bisogna aumentare fatturati e ricavi: significa più partite di cartello, più sponsor e biglietti (si spera) e più diritti tv da fare pagare a platee di abbonati sempre più estese. Una scommessa di crescita, appunto, sul “debito buono”. Perché bisogna anche dire che la pioggia di denaro, 350 milioni a club come “invito” a entrare, proposti da JP Morgan non sono un regalo, ma un anticipo sui futuri guadagni. Costerà soldi (ad esempio a Inter e Milan) adeguare gli impianti, così come è probabile che cresceranno ancora i costi di rose e ingaggi, se si vuole fare bella figura al gran gala (senza bella figura, prima o poi gli introiti calano).
Dall’altra parte c’è un signore molto assennato, non particolarmente piacione e che i debiti non li ha mai amati: Wolfgang Schäuble. Okay, scherziamo, il signore è un altro: Karl-Heinz Rummenigge, 65enne ceo del Bayern Monaco, uno dei club più ricchi e vincenti d’Europa, e senza dubbio uno di quelli con i conti più in ordine e la programmazione più oculata. La squadra che dirige – come tutto il calcio tedesco, sostenuto dal mondo politico ed economico – ha rifiutato l’invito a entrare nella Superlega (per ora, il futuro non dipenderà solo dalla loro volontà). In un’intervista ieri al Corriere, Rummenigge non solo spiega le sue posizioni, ma illustra una visione economica del calcio perfettamente tedesca, rigorista e basata sulla sostenibilità del debito come unica vera base per la crescita, anche sportiva. In questo, si parva licet, leggere le sue parole ricorda i tempi in cui Schäuble spiegava all’Italia che il rapporto defici/pil non si poteva sforare, nemmeno nella crisi del 2008, e che per tornare a crescere bisognava prima tagliare i costi improduttivi. “La strada non può essere quella di incassare sempre di più e pagare sempre di più giocatori e agenti… E’ il momento di fare un calcio meno arrogante”, dice Rummenigge. La crescita a debito non può esistere nel pensiero di un tedesco, nemmeno nello sport. Debito è colpa, lo sappiamo, ma soprattutto non è garanzia di sviluppo adeguato. Il sospetto (non così peregrino) dell’ex campione tedesco è chiaro: per reggere alla maggior richiesta di spettacolo si aumenteranno le spese. In un momento di crisi, servono politiche virtuose per sistemare i bilanci: “Tutte le imprese cercano di ridurre i costi: solo nel calcio si pensa di risolvere tutto con l’aumento dei ricavi”.
La strada del Fußball è nota, le idee di Rummenigge per il futuro anche: salary cap, diminuire il ruolo degli agenti, calmierare il mercato. E responsabilità sul proprio territorio. Sono due modelli di crescita opposti, difficilmente compatibili. Del resto è la vecchia antinomia tra il mondo “di terra” dei tedeschi è il mondo “di mare” e senza confini, anglosassone.
Non si tratta solo di essere ancorati al passato o voler sfidare il futuro. Non si tratta di benecomunismo o mercatismo. Però tutto questo si porta dietro anche altre conseguenze. C’è una visione territoriale (da non confondere con nazionalistica) del calcio più marcata: “Non dimentichiamo la responsabilità verso i nostri tifosi”, dice il ceo del Bayern. E’ lo stesso argomento emerso, forse un po’ a sorpresa, nel football inglese, che pure ha sei club pronti al grande passo. Persino Boris Johnson mostra di temere una diminuzione del valore (gigantesco) della Premier League e uno scollamento delle tifoserie. In Italia, l’ad della Serie A Luigi De Siervo teme che la nuova lega potrebbe far scendere le entrate delle squadre escluse del 30 o 50 per cento.
Se siano esatti questi conti negativi, o lo siano i conti di grande crescita e positive ricadute per tutti prospettati dai fautori del nuovo progetto, è una discussione aperta tra gli analisti. Ma è evidente – posto che tutti hanno interesse a far funzionare il giocattolo – che si scontrano due modelli economici e persino culturali. Far crescere il futuro senza affossare la realtà del calcio presente, che appunto non è fatto soltanto di soldi, dovrebbe essere un obiettivo comune. Uno di quegli obiettivi che portano verso un pareggio.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA