Il "golpe" è solo rimandato?

Superlega, un progetto nato male

Il progresso andrà dove deve andare, ma modi e tempi dell'annuncio sono stati sbagliati

Piero Vietti

Nessuno storytelling, nessun sondaggio fra i tifosi, che infatti non l'hanno presa bene, soprattutto in Inghilterra, unici testimonial i volti di tre dei dirigenti più antipatici d’Europa, Florentino Perez, Andrea Agnelli e Malcolm Glazer

Come molti tentativi di golpe, l’annuncio della Superlega (già finita dopo solo 48 ore, però) è avvenuto con il favore delle tenebre, in un weekend sul campo così così per le dodici “ribelli”. Niente spargimenti di sangue, solo algidi comunicati stampa dopo che l’Uefa aveva commentato negativamente i leak giornalistici sulla fuga delle big verso lidi più danarosi. Nell’epoca delle società di calcio trasformate  in società di comunicazione  ci si poteva aspettare qualcosa di più allettante che non un “vi romperemo il culo” in stile ultrà. 

 

D’altronde, però, à la guerre comme à la guerre: la “sporca dozzina”, come da definizione isterica del presidente Uefa Ceferin, alla fine uscito vincitore dallo scontro, voleva spaccare tutto. Giusto dunque, dal loro punto di vista, entrare con arroganza a gamba tesa con comunicati notturni, interviste in cui si parla apertamente di soldi, un sito e un logo che sembrano disegnati da uno stagista di passaggio. Nessuno storytelling, nessun sondaggio fra i tifosi, unici testimonial i volti di tre dei dirigenti più antipatici d’Europa, Florentino Perez, Andrea Agnelli e Malcolm Glazer. Il progresso va dove deve andare, e non saranno gli appelli ai sogni dei bambini da preservare a fermare le squadre più tifate e indebitate al mondo nel loro progetto, si ripeteva in questi giorni. Fatto sta che modi e tempi dell’annuncio hanno generato una protesta imponente quasi ovunque, da Uefa e Fifa alle altre società ai governi passando – soprattutto – per i tifosi. Se è vero che il calcio non è un bene comune e una società privata può giocare con chi vuole, non si può negare il valore sociale del calcio, rimasto forse uno dei pochi elementi di coesione (guerre campanilistiche comprese) in un mondo colpito dalle conseguenze della pandemia. Il Covid non ha avuto effetti solo sugli incassi di Real Madrid e Juventus, ma ha ferito e impoverito molte persone: l’annuncio della Superlega è sembrato a tanti un colpo violento  a uno sport dal valore sociale immenso. Comprensibile dunque che i politici, al netto dell’opportunismo elettorale, si siano preoccupati per la sua tenuta. Ma queste sono chiacchiere sociologiche a cui è stato facile ribattere che non si poteva più aspettare, a queste società servono soldi subito.

 

I tifosi sono cambiati, si affrettano a spiegarci gli esperti sventolando indagini di marketing inappuntabili, i giovani non sono più appassionati alle partite, guardano highlights e giocano a Manchester United-Barcellona tutti i giorni alla PlayStation. Vero, ma quelli che spendono nel calcio sono ancora i loro genitori, quelli dai 35 anni in su, i più scettici, per educazione calcistica tradizionale, su una formula così estrema. A parte significative eccezioni, i tifosi tradizionali, quelli legati alla squadra della propria città, quelli inglesi soprattutto, erano e restano critici. Se noi però allarghiamo lo sguardo, è pieno di “fan” nel mondo che non aspettano altro. Di chi parliamo quando parliamo di “tifosi”? 

 

Sul Foglio Sportivo di sabato scorso, il giornalista inglese Tim Parks ha raccontato le sue domeniche allo stadio e in trasferta con la curva del Verona dicendo che chi va (andava) alla partita non ci va per il gioco e le vittorie, ma per “esserci”. Nulla di più vero, peccato che oggi  quelli che “ci sono” siano una minoranza sconfitta dalla storia (e dalla retorica sull’ultrà brutto e cattivo). Quella verità regge – e probabilmente è stata davvero decisiva nel fare cambiare idea alle sei inglesi sfilatesi ieri sera dal progetto Superlega – ma i numeri ci dicono che i tifosi oggi sono persone annoiate che vogliono essere intrattenute, altrimenti cambiano piattaforma. Alle proprietà (quasi tutte straniere) delle dodici squadre fondatrici della Superlega non interessa l’identificazione del fan con la città o la nazione, non interessano le  chiacchiere al bar il giorno dopo la partita o le prese in giro a scuola tra compagni. Interessano le interazioni sui social, il commento  con l’hashtag, il clic al video ufficiale. Per 1.000 tifosi di Liverpool che contestano la Superlega davanti ad Anfield ci sono 100.000 tifosi del Liverpool in Asia che non aspettano altro che vedere le sfide contro Barcellona e Juve. 

 

Sono  giusti i discorsi  sul merito sportivo che con una competizione chiusa viene ucciso, anche se disinnescabili con un dato, valido soprattutto in Spagna e Italia, e cioè che tanto alla fine sempre quelle tre vincono, e il sogno della piccola di alzare la Champions o lo scudetto è da vent’anni solo un sogno. Difficile credere alla favola dei soldi che a cascata avrebbero arricchito tutti (ci sono sempre più soldi da almeno due decenni, i ricchi sono sempre quelli).  La mossa auspicabile, dopo la crisi, era che si ripensasse il sistema abbassando spese e costi e distribuendo più e meglio i soldi delle coppe, non che ci fosse una fuga in avanti. La scommessa dei dodici era sulla fine del calcio come fattore di coesione sociale e sul suo essere sempre di più esperienza personale da fruire ovunque. La reazione di chi dice no alla Superlega è sana, al momento incredibilmente vincente. Anche se conta sempre meno esserci, e sempre più essere cliente e fruire. E i clienti sono intercambiabili. Almeno finché ci sono.

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  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.