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Dal calcio al circo

Buffalo Agnelli e gli indiani

Tra "spettacolo" e guerra simulata

Maurizio Crippa

Bill Cody aveva visto giusto, quando trasformò il selvaggio West in una faccenda di highlights da vendere al pubblico. Anche i dodici della Superlega hanno visto giusto per il futuro, forse. Ma per ora, il football resta una cosa molto diversa dalla PlayStation

La guerra in fin dei conti l’aveva vinta lui, contro gli indiani; o quantomeno l’avrebbero definitivamente vinta da lì a poco i pionieri della modernità e del nuovo mondo: “Diminuzione dei cavalli, aumento dell’ottimismo”, gli avrebbe fatto cantare molti anni dopo Francesco De Gregori. Il mondo andava e sarebbe andato nella direzione che lui aveva immaginato e contribuito a forgiare: il selvaggio West e la lotta per la sopravvivenza ridotti a un circo, a uno spettacolo a pagamento. Senza più natura, ma senza nemmeno tanta cultura. Eppure Buffalo Bill prigioniero dentro al suo circo – nella strepitosa e impietosa parodia di Robert Altman in Buffalo Bill e gli indiani – è lo sconfitto, un uomo perso nel suo labirinto, è lo zimbello che Toro Seduto, capo della tribù del West inteso come bene comune, silenziosamente percula dall’inizio alla fine. Buffalo Bill aveva la chioma bionda (parrucca) e  gli occhi azzurri di Paul Newman. Sostituiteli con la barba cisposa e lo sguardo da cane bastonato anche quando vince di Andrea Agnelli, e il grottesco della situazione parallela sarà ancora più evidente.

 


In fondo Buffalo Bill non è altro che l’interprete-imprenditore dell’anima americana dello spettacolo. Che prende l’epopea avventurosa e sanguinosa della conquista del West e la trasforma in un roboante circo per famiglie senza più pericoli. Il cinema poi lo farà meglio (è sempre questione di tecnologie) ma, a ben guardare, è come far pagare al pubblico, per il suo intrattenimento, soltanto gli highlights del West, togliendo le parti noiose. Lo sport americano è della stessa natura, si toglie quel che è noioso e si esalta la spettacolarità. Buffalo Bill aveva visto giusto, ma c’era qualcosa che non andava: c’era ancora di mezzo la resistenza silenziosa ma gagliarda degli sconfitti, quelli che prima giocavano a un altro gioco e che avrebbero voluto continuare a farlo.

 


Ad Andrea Agnelli, al di là di qualche eccesso di ridicolo nei tempi e nei modi nell’ammutinamento dei dodici, è capitata più o meno la stessa cosa. Il calcio andrà probabilmente nella direzione che loro hanno indicato. Ma non ancora, non ancora. Il calcio del futuro sarà più simile al circo di Buffalo Bill, un baraccone di highligts. Un po’ lo è già, anche senza Superlega: gli eventi globali da tutto esaurito televisivo e trend topic sui social sono un certo gruppo di partite, e solo un gruppo ristretto di squadre, il resto è contorno poco seguito. Di queste partite, quello che fa il giro del mondo e dei telefonini sono i gol e qualche rabona, l’ultima tinta di capelli di Neymar. I novanta minuti condensati in tre. Tra le idee innovative che l’attualmente defunta nuova lega intendeva introdurre ci sono queste: vendere non solo i diritti delle gare ma anche, a parte, i diritti degli  highlights, puntando su un pubblico molto più giovane – quello, come ha detto proprio Agnelli, che non segue più la partita intera. E’ il pubblico della generazione Z che secondo gli analisti varrà  oltre trenta trilioni di reddito entro il 2030, potenzialmente molto più degli attuali millennial, e che vive per tre quarti nei mercati emergenti (calcisticamente: quelli con meno cultura tradizionale). Un’altra idea è spezzare il gioco in tre tempi da trenta minuti (più velocità, ma anche una pausa in più per fare/consumare altro). Poi ovviamente un calcio dove giocano solo i migliori, e dove l’adrenalina della possibile sconfitta, della retrocessione, sarà eliminata. Una parte della stagione sarà una lunga amichevole (accade anche nella mitica Nba: molte partite della regular season sono giocate dalle seconde linee e sotto ritmo) e la corsa alla vittoria è solo nelle fasi finali. Ma i dodici Buffalo Bill del nuovo calcio sanno anche che il pubblico globale del futuro sarà meno interessato alla vittoria in sé, più legata alla tribalità della tifoseria, che allo spettacolo consumato senza particolari ansie da classifica. E’ più appassionante il circo del West oppure una cavalcata nella prateria? Può essere una buona domanda, cui Buffalo Bill aveva già trovato la sua risposta. Il calcio da Superlega ovviamente è parte del modello “americano”, dove lo sport, lo stadio, sono innanzitutto una dimensione di festa; molto meno del modello “classico” europeo, dove il calcio è una sublimazione simbolica della guerra. Agli indiani di Toro Seduto piaceva vincere a Little Big Horn, rivedere tutte le sere gli highlight nel circo di Buffalo Bill, era invece una rottura di balle, o un orribile svilimento commerciale della storia. Toro Seduto per un po’ riuscì a perculare Buffalo Bill, finché Buffalo Bill capì il trucco e cambiò le comparse e anche il pubblico: venne in Europa. A vendere gli highlights di quella che era stata la più bella epopea del mondo.
 

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"