il progetto decaduto
Il "calcio del popolo" non è di certo quello di Uefa e Fifa
Il dibattito sulla Superlega ha confermato che l’Italia preferisce affidarsi al pensiero magico ed emotivo, piuttosto che sentirsi parte della globalizzazione
Con l’elezione di Nasser Al-Khelaifi, il magnate e imprenditore qatariota proprietario del Paris Saint-Germain, a Presidente dell’Associazione dei Club europei si può forse dire concluso un importante capitolo della storia del calcio contemporaneo ma anche della politica globale. Il campo semiotico, ovvero i confini delle strutture di significato, entro cui è stato incanalato il dibattito sulla Super League è quello tipico delle dinamiche populiste. Un “calcio del popolo” puro, dei tifosi romantici contro il “calcio globale del capitale” raffigurato plasticamente da Florentino Perez e Andrea Agnelli. Sono questi ultimi, fisiognomicamente avidi e cattivi per definizione, a voler privare i tifosi della loro “sovranità”. Sono, come ha scritto Massimo Gramellini “immediatamente antipatici a tutti”. Come potevano allora i tifosi, per dirla con Ernesto Galli della Loggia, esimersi dal “tutelare e difendere la comunità calcistica”?
Nell’opposizione fra luce e tenebre è per tutti facile scegliere da che parte stare. Come se Sant’Agostino non ci avesse spiegato, già tanti anni fa, l’insostenibilità del manicheismo e della dottrina dualista. Questa può essere utile per aizzare le folle, ma appare assolutamente inutile per spiegare la complessità. Ad esempio, nell’ex Germania Est il calcio era una questione puramente politica. Ovviamente i tifosi gioivano dei successi delle loro squadre, ma come ha dimostrato Vincenzo Paliotto in un fortunato volume del 2019 (DDR la guerra fredda del football), la politica e gli scontri di potere sono stati spesso più importanti delle mere reazioni emotive. Il calcio è una cosa seria, come la vita. E non si dovrebbe derubricarlo a “divertimento”.
Il gol di Sparwasser nella coppa del mondo del 1974 con cui la Germania Est sconfisse la Germania Ovest resterà per sempre negli annali della geopolitica. Così come la sua successiva fuga in Germania Ovest per trovare la libertà. Nel 1933, dopo aver assistito ad un Triestina-Ambrosiana Inter, Umberto Saba scrisse la poesia “Squadra paesana”. Qui esaltava il suo trasporto per il tifo e per il “verde tappeto” dello stadio. Già allora di “paesano” nel calcio c’era ben poco. Basta ricordare che la nostra Inter non poteva chiamarsi così. Nel 1928, su pressioni del regime fascista, fu costretta a fondersi con l’Unione Sportiva Milanese e a cambiare nome in Società Sportiva Ambrosiana. Nel 1932 divenne Ambrosiana-Inter. Il nome “Internazionale” avrebbe potuto ricordare troppo l’Internazionale Comunista. Soltanto dopo la fine della Seconda guerra mondiale, nel 1945, si tornerà al nome di Internazionale.
Il dibattito sulla Super League ci ha ricordato che esiste un “calcio del popolo”, non è sicuramente quello della UEFA o della FIFA. È quello dei tanti fra noi che compravano le scarpe “Pantofola d’oro”, rigorosamente nere, per calcare i campi delle periferie dell’Italia del sud. In quei campi non c’era nemmeno l’erba, solo il terriccio. Si doveva sperare di non cadere ed era impossibile fare scivolate, pena il rischio di tornare a casa con ustioni di terzo grado sulle gambe. Il “calcio del popolo” non è sicuramente quello di capi di stato e di governo che intervengono a gamba tesa sulla decisione di alcune società sportive di gestire i loro investimenti in modi che loro possono non gradire. Nel mondo attuale, come ha magistralmente scritto Natalino Irti, non siamo più “individui”, ma “dividui”. Uomini che “non cessando di appartenere ai luoghi storici e pure entrando nella sconfinata dimensione dell’economia, si avvertono quasi divisi, scissi nella loro originaria unità”. Questa duplicità “lacera e turba” scrive Irti.
È infatti il conflitto interiore che vivono molti di noi che cominciano la giornata parlando in inglese per motivi di lavoro e la concludono interagendo con le più svariate forme dialettali con i parenti in un esercizio di tenuta insieme di due mondi che possono apparire, a volte, in eterno conflitto. È il mondo delle tante piccole comunità sportive e dei ragazzi che in Africa o in Asia, con connessioni internet traballanti, sognano di essere Lukaku l’eroe di Milano o Ronaldo l’idolo di Torino. In un misto tra globale e locale, tra mercificazione ed emozione che il manicheismo del capitale contro il popolo non riuscirà mai ad afferrare. Il dibattito sulla Super League sta confermando che l’Italia preferisce affidarsi al pensiero magico ed emotivo condito di mai sopito masaniellismo. Non riesce però a decidere se vuole esser parte della globalizzazione dell’economia pur conservando alcune sue peculiarità locali. E così decide di non decidere per tutelare lo status quo. Ma ci sono altri che decideranno per noi. Loro, si, giocheranno la Super League.