And now?
Il calcio ha poco da festeggiare
La ribellione è durata due giorni, ma il sistema è tutto da rifare. E senza retorica
E ora di cosa parliamo? La Superlega è durata il tempo che i tifosi inglesi delle cinque squadre superleghiste si facessero un paio di pinte nei pub davanti gli stadi di competenza. Poi sono usciti e si sono messi a protestare, minacciando, specialmente quelli della Kop di Anfield Road, di ribaltare il celebre refrain dei Reds: “D’ora in poi camminerete da soli”. E giù tutto il castello (di carte, nel vero senso della parola), una specie di fuga da Dunkerque più scomposta di quella storica. “Sorry guys we made a mistake”. Ma vi aspettavate applausi, baci e abbracci? Se fai la rivoluzione (anche dall’alto), diceva Indro Montanelli, non puoi sperare nell’appoggio dei carabinieri e nella benedizione del Papa (a proposito, dal Papa ci torniamo). Tutto finito. Per ora.
Un’allegria da Place de la Concorde si aggira per l’Europa, con Pep Guardiola e Jurgen Klopp, con Roberto De Zerbi e Gerard Piqué a guidare la folla che butta giù la statua di Luigi XVI-Andrea Agnelli e la sostituisce con la ghigliottina. Allons enfants. Piqué, bandiera del Barcellona, per inciso, è quello che, con la sua società, ha distrutto la centenaria Coppa Davis con un’operazione simile a quella della Superlega. Ma questa è un’altra storia e, soprattutto, un altro sport. Il tennis è disciplina eminentemente individuale. Grazie a Dio c’è Federer e per noi Sinner. Il sommo Roger, inciso per inciso, assiso sul dogma dell’infallibilità più del Papa (ci arriviamo), la Davis l’ha giocata solo quando aveva un posto libero in agenda, tempo e voglia. Sempre viva lo sport e i suoi valori, comunque.
Dicevamo dell’allegria ghigliottinesca. Non è che che ci sentiamo orfani della SL, ci mancherebbe, ma non comprendiamo la vostra garrulità, quest’odore metallico di sangue che tanto vi eccita. Giustiziati i nemici del popolo, riposti ferri e gomitoli delle tricoteuses, che cosa resta? E’ questa la domanda che non abbiamo visto stampata, né sentito pronunciare. Eppure è quella fondamentale. E ancora: che cosa abbiamo difeso? Per favore non dite “la poesia del calcio”. “I poeti che brutte creature / ogni volta che parlano è una truffa” (F. De Gregori). Finiti i festeggiamenti, scesi dal carro del vincitore, dove c’erano solo posti in piedi, tra Salvini e Macron, Draghi (con distinguo, da banchiere) e Meloni, Merkel e Johnson, Ceferin e Cairo, Nick Hornby e il principe William, domandiamoci, ancora una volta, se ci basta aver stretto in un angolo, vedremo come e per quanto, Perez e Agnelli. Domandiamoci se quello che abbiamo difeso è quello che vogliamo, che ci accontenta, se questo è un modello di calcio che va bene così o invece questa è un occasione per ripensarlo, ma ripensarlo anche personalmente, dal basso, come è accaduto per la rivolta, cambiando il nostro modo un po’ becero, un po’ politicamente corretto/scorretto, un po’ egoista, sì egoista, non è solo di Agnelli & soci la specialità, di viverlo.
Ci siamo fermati solo a una leggera nuvola di latte sopra il tè, abbiamo sventolato il vessillo del merito, abbiamo urlato le nostre parole d’ordine: Leicester, Atalanta! Ma questa è solo fuliggine. Sotto ci sono Fifa e Uefa, luoghi di potere e, come accaduto nel recente passato, non proprio sempre di diritto e onestà. Sotto, sotto c’è l’Italia. L’Italia “dimenticata e da dimenticare” con il suo calcio malato, con la fissazione per gli arbitri e per i complotti, con De Laurentiis e Lotito a spadroneggiare, la Lega di Serie A interessata solo al piccolo cabotaggio, con i furbetti dei tamponi e dei protocolli, con il tifo violento e la violenza verbale.
Una crisi da non sprecare.
E il Papa? Eccoci. Un anno fa, con il mondo stremato dalla pandemia, Francesco disse: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”. Senza timore di essere blasfemi, vorremmo che l’assioma venisse applicato a questo momento del calcio. Parliamo di valori ma anche di riforme e realismo. Perché se è vero che il calcio è di tutti, i club più importanti sono quelli che lo trascinano. Perché, se ci possiamo permettere storie di rinascita/rivincita, il Calais che gioca la finale di Coppa di Francia, il Leicester che vince la Premier, la Corea del Nord che fa fuori l’Italia (questa meno), i grandi campioni Messi & Ronaldo, allenatori star come Guardiola con gli astrofisici, è perché esistono i grandi club. “Questo non è più sport” aveva profetizzato Pep. Lui se li merita, ma che sport può reggere ancora il suo (e quello di molti altri) stipendio da 13 milioni di euro netti all’anno? Da un lato disprezziamo i ricchi per la loro ricchezza e il loro egoismo, dall’altro vogliamo che spendano, esonerino; pretendiamo le star, poi critichiamo i bilanci malmessi. Siamo moralisti, ma se arriva il fenomeno agognato che ci frega dell’enorme percentuale al procuratore? Questo non è più uno sport, ha ragione Pep. È la lotteria di Capodanno: prima dell’arrivo di tre miliardari stranieri, il Chelsea non vinceva un titolo da cinquant’anni, il Manchester City da quarantacinque, il Psg da venti. Va bene? Non ha importanza, perché abbiamo scongiurato la Superlega. Palla al centro.
Il Foglio sportivo - In corpore sano