Uno striscione di protesta contro la Superlega sorvola Anfield lunedì sera, prima della partita tra Liverpool e Leeds (foto Ansa) 

Il Foglio sportivo

La guerra del calcio è appena cominciata

Moris Gasparri

Dietro al  progetto della Superlega ci sono  concezioni diverse di sport e    lo scontro tra due  modelli di capitalismo 

Solo fino a pochi anni fa l’ipotesi di utilizzare i grandi classici del pensiero politico ed economico novecentesco per interpretare le vicende calcistiche contemporanee sarebbe sembrata una stravaganza. Al contrario, nel nostro presente diventa un esercizio essenziale per comprendere in profondità la “guerra del pallone” andata in scena in questi giorni, le cui vicende hanno una provenienza non recente e le cui fratture sono destinate a restare tra noi ancora a lungo. Il naufragio della Superlega, oltre al grande dono di giornate memorabili e al sollievo psicologico di averci fatto dimenticare per qualche istante i problemi della pandemia, ci offre due lezioni utili da meditare.

 

 

La prima: le diversità storiche e geografiche contano. Mai come in questi giorni si è abusato di espressioni come “modello americano” e “modello europeo”, come fossero etichette utilizzabili a piacimento, astraibili dalle particolarità storiche ed esistenziali che le hanno create. Proprio per questo motivo, i modelli non sono modelli. Esistono punti di contatto tra le due realtà, ibridazioni (pensiamo al fatto curioso che oltreoceano da anni divampano le polemiche per inserire il meccanismo di promozioni/retrocessioni anche nel sistema calcistico americano), ma nessuna ingegneria istituzionale, nemmeno quella sportiva, può aggirare il dato fattuale della diversità storica.

 

Nel corso del Novecento lo sport americano si è sviluppato attraverso la congiunzione tra un agonismo giovanile di massa radicato nel sistema scolastico, i cui giovanissimi protagonisti competono (almeno in linea teorica) per puro diletto, e la successiva massimizzazione economica della funzione spettacolare dei più forti e talentuosi gestita dalle leghe e dalle franchigie che le compongono. Nella mentalità dello sport professionistico americano agonismo e business, emozioni e denari, valori e interessi sono compenetrati, anzi… sono la stessa cosa! Come ci ha ricordato lo storico dell’economia George Surdam qualche anno fa nel suo libro The rise of the National Basketball Association, la nascita della lega a cui tutti hanno fatto riferimento in questi giorni è un manifesto vivente del pragmatismo americano: fu l’esigenza commerciale dei proprietari delle arene di hockey (su tutti Walter Brown, proprietario del Boston Garden), desiderosi di occupare per molte più serate i loro impianti originariamente concepiti per l’hockey su ghiaccio, a spingerli nel 1946 a inserire nel programma degli spettacoli questo sport giovane e da poco approdato nel programma olimpico e a creare la Basketball Association of America, che nel 1949 sarebbe diventata l’attuale Nba (Brown divenne anche il primo presidente dei Boston Celtics). Nella lega che ha prodotto alcuni tra i più grandi agonisti dello sport moderno c’è questa radice che il pubblico europeo ignora. Lo sviluppo planetario del business sotto l’egida di un commissioner visionario come David Stern è stato solo un approfondimento della propria origine, non un elemento sopraggiunto in una fase successiva.

 

Al contrario il calcio, la principale espressione storica dello sport europeo, non nasce e non si sviluppa nel “secolo breve” con l’imperativo di fare profitti. Quando agli inizi del Novecento l’imprenditore, intellettuale e poi politico tedesco Walter Rathenau scrisse che l’economia (quindi il capitalismo) era divenuta il destino del mondo, lo sport veniva al contrario entusiasticamente celebrato da alcuni filosofi per la sua natura antieconomica. Nato nella nazione che ha creato il moderno capitalismo, il calcio è rimasto per lungo tempo una zona franca dell’economia, legittimando da subito la possibilità di lauti guadagni per i suoi attori principali attraverso il riconoscimento del professionismo, senza però incentivare logiche di sfruttamento commerciale dei suoi spettacoli e dei suoi appuntamenti rituali da parte dei proprietari. Per un secolo il “tempio” del calcio europeo non è stato in vendita, per parafrasare Ezra Pound. In questo processo non va sottovalutato anche il contributo della cultura calcistica sudamericana, che ha sempre opposto ai principi del liberismo americano i valori del popolo incorrotto nemico dell’avidità dei ricchi. Questa distinzione nei percorsi storici non è un esercizio scolastico, ma va sempre tenuta in mente perché  il codice genetico del calcio non è un fattore inerte. Così come il metabolismo umano funziona ancora sulla base delle esperienze quotidiane di scarsità alimentare dell’umanità primitiva, così la percezione antieconomicistica è ancora viva negli appassionati di calcio, nonostante da trent’anni sia divenuto un settore industriale vero e proprio. Il tifoso europeo, definito nel gergo caro ai promotori della Superlega “legacy fan”, agisce in maniera economica, produce atti economici, si abbona allo stadio e alle tv, discute di fatturati, compulsa siti e mette like ai social, ma si sente sempre altro da questa condizione, scisso da una realtà che contribuisce ad alimentare ma da cui spiritualmente, nel proprio foro interiore, rifugge. È cliente-consumatore, anzi il cliente-consumatore migliore perché fedele, come ben sanno gli esperti di marketing sportivo, ma non sa di esserlo, o perlomeno non lo sa pienamente, alimentando in maniera spesso inconsapevole il business da cui idealmente rifugge.

 

 

Nella mentalità europea il calcio resta qualcosa di non completamente assimilabile dall’economia, e il loro legame è variamente interpretato in senso fatalistico come male necessario, o come corruzione degli antichi valori perduti. Gli stessi calciatori e allenatori vivono e manifestano pubblicamente questa dissonanza cognitiva, e non a caso negli scorsi giorni abbiamo assistito ad appelli accorati al rispetto della passione popolare, alla salvaguardia di sogni ed emozioni da parte di milionari divenuti tali proprio in base alla intensa commercializzazione del loro sport.

 

Il successo della Premier League, che nel 1992 fu la prima a importare elementi tipici dello sport business americani nel continente europeo, si deve anche e soprattutto all’abilità con cui i manager hanno operato per una radicale trasformazione in senso commerciale del principale campionato inglese, ma sempre prestando grande attenzione al mantenimento delle tradizioni, anche sulla base di conflitti ricorrenti per l’adozione di principi antieconomici (ad esempio per il calmieramento dei prezzi dei biglietti per i settori ospiti), comprendendo come senza il legame con le comunità di tifo tradizionali lo stesso prodotto calcistico vale infinitamente meno agli occhi dei tifosi asiatici, africani o americani. Non stupisce che questi conflitti si siano spesso innescati contro decisioni delle proprietà americane di Manchester United, Arsenal e Liverpool.

 

La seconda lezione è di realismo economico. Nel riconoscimento del fatto che nessuno riporterà il calcio alle sue forme ante-globalizzazione, la guerra sorta attorno alla creazione della Superlega va analizzata come una partita tra due modelli di gestione capitalistica del calcio europeo, tra due differenti varietà di capitalismo per utilizzare la definizione della sociologia (per una curiosa ironia della storia queste vicende sono andate in scena nella settimana in cui, il 21 aprile, si sono celebrati gli anniversari della nascita del principale teorico della genesi del capitalismo e del ruolo della burocrazia – Max Weber – e della morte del principale economista del Novecento, John Maynard Keynes).

 

Da un lato il capitalismo calcistico “americano” propugnato da Andrea Agnelli, iconizzato dal ruolo di JP Morgan come primo finanziatore, da una visione liquida in cui esistono consumatori globali del calcio non più legati alle comunità locali da inseguire e attirare attraverso una radicale innovazione del prodotto, in una logica per cui la mobilità con cui la Fiat ha trasferito la sede legale e parte del proprio cuore operativo lontano da Torino potrebbe un giorno riguardare anche la stessa Juventus (non nella satura Europa, ma chissà, magari negli Stati Uniti, a New York, in cerca di tifosi-consumatori con maggiori capacità di spesa), con l’irrefrenabile volontà di accrescere i ricavi del proprio settore industriale in modo da rendere la Superlega la grande regina dei ricavi dello sport mondiale, con la schumpeteriana distruzione creatrice di vecchi monopoli entusiasticamente richiamata negli scorsi giorni sul Foglio da Pasquale Annicchino

 

 

 

Dall’altro lato, e per il momento vincente, una particolare versione calcistica del capitalismo politico – definizione weberiana recentemente riportata al centro del dibattito contemporaneo dalle ricerche di Alessandro Aresu – non solo per il ruolo di orientamento economico svolto dal principale organismo burocratico del calcio europeo, la Uefa (costituito al proprio interno da altre burocrazie come le federazioni nazionali, a loro volta rispondenti alle burocrazie statali), ma soprattutto nel modo in cui il governo inglese guidato da Boris Johnson è tempestivamente intervenuto per considerare la Premier League un’industria di primario interesse nazionale da tutelare rispetto alla concorrenza internazionale (non esiste un’idea strategica di Superlega che non conduca alla presa della vera Bastiglia del calcio mondiale, il monopolio degli eventi nel weekend, il vero grimaldello per massimizzare i guadagni su scala globale, poiché il posizionamento infrasettimanale non permette un equilibrio dei fusi orari), facendo del calcio un settore strategico sottoponibile a clausole di sicurezza decise dalla politica in grado di condizionare le decisioni di imprenditori privati, facendo immediatamente recedere i principali club inglesi dalla decisione di aderire al progetto guidato da Florentino Perez. Il tutto in una chiave non solo economico-giuridica, ma con l’accompagnamento di una fortissima mobilitazione popolare in difesa di un elemento identitario come il modello piramidale inventato dai padri costituenti del football inglese, episodio che sottolinea ancora una volta come i fenomeni sportivi abbiano una connessione simbolica fortissima con le vicende che hanno prodotto Brexit e che ora alimentano il ruolo globale dell’Inghilterra.

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