Il Foglio sportivo
Questo calcio è un sistema destinato a crollare
Questa “vittoria” è anche dei tifosi, ma il cambiamento è solo rimandato: all’Uefa basta poterlo governare
Un indizio è un indizio, due fanno una coincidenza, e tre sono bastevoli ad avere forza di prova.
In questo senso, la bufera suscitata dalla nascita nel cuore della notte della Superlega, la levata di scudi che ha suscitato e la tragicomica ritirata dei suoi più assidui sostenitori rappresentano la prova scientifica che il sistema calcio così come lo conosciamo è destinato a crollare su se stesso.
Non serviva un sismografo per avvertirne gli scricchiolii sempre più sinistri, e le crepe della struttura erano visibili ormai da tempo a occhio nudo.
I congiurati
L’uscita allo scoperto dei congiurati, con Florentino Perez nei panni dell’eminenza grigia e Andrea Agnelli che, nel giro di poche ore, prima tratta con la Uefa la nuova formula della Champions League, quindi si rende irreperibile e infine si presta a fare da portavoce e capro espiatorio degli “scissionisti”, è il grido d’allarme di alcuni dei club più prestigiosi e indebitati d’Europa, a caccia di una formula che garantisca loro il profitto, o semplicemente la salvezza dal disastro economico, sotto forma di diritti televisivi, operazioni di marketing internazionale e ricavi da merchandising che il sistema attuale non riesce più a produrre in quantità sufficiente per tenere i conti in ordine.
Quanto a lungo può perpetuarsi un sistema economico in cui il modello di finanziamento ideale è il contratto da 400 milioni col quale lo sceicco Mansour ha garantito fondi al suo Manchester City sotto forma di sponsorizzazione da parte di Etihad, la compagnia aerea dei suoi Emirati?
Chi non ha le casse piene corre sul filo del rasoio semplicemente per risultare competitivo in Europa, e la pandemia non ha fatto che accelerare un processo inevitabile.
Le faraoniche spese di Real e Barcellona, che apparivano giustificate quando i club sollevavano la “Coppa dalle grandi orecchie”, suonano come campane a morto dopo soli due anni senza le spagnole in finale di Champions, e le dubbie operazioni sulle plusvalenze dei club di casa nostra, che sul tetto d’Europa si sono seduti l’ultima volta nel 2010 con l’Inter del “triplete”, nascondono un baratro.
Le due milanesi hanno già cambiato proprietà in tempi recenti finendo in mani straniere con inevitabile corredo di interrogativi sul loro futuro a lungo termine; la Juve resta italiana com’è italiana la Fiat, dunque solo fino a un certo punto, ma in quanto club più titolato e tifato del paese, e unico club tricolore in grado di tentare l’assalto all’Europa in tempi recenti, si è assunta l’onere di fare da portavoce del disagio che affligge il salotto buono della Serie A.
“Coi nostri investimenti teniamo su tutta la baracca”, dichiara senza mezzi termini Agnelli, seguito a distanza di sicurezza da Zhang e Gazidis, che uno stadio di proprietà in grado di macinare ricavi ancora se lo sognano. “Siamo disposti a continuare a farlo versando un robusto contributo di solidarietà, ma vogliamo avere la facoltà di giocare il nostro torneo stellare e trattare in autonomia i relativi diritti”.
“Perché dovremmo sorbirci due volte all’anno Juve-Crotone, quando possiamo vedere la squadra che gioca una settimana contro il Manchester United e quella dopo contro il Barcellona?”, sono andati a ruota parecchi tifosi, talmente accecati dalle luci della ribalta da non calcolare il rischio più ovvio: in Superlega potrebbe toccare alla loro squadra far la parte del bistrattato Crotone.
Tu vuò fa’ l’americano
Il paragone più gettonato dai sostenitori della Superlega è stato quello con la Nba, la categoria non a caso più evocata quella di “spettacolo”.
Peccato che l’Europa non sia l’America, che il calcio viva di continuità e non di frazionamenti perfetti per l’inserimento di break pubblicitari, e peccato soprattutto che della Nba si voglia ricalcare il modello solo in parte, con una spuria formula mista fra club ammessi di diritto alla Superlega in quanto fondatori, e altri fuoricasta da scegliersi di anno in anno per “meriti sportivi”. Nessun accenno, da questi improvvisati sostenitori del basket, alla rigida politica finanziaria della Nba, al salary cap e al sistema genuinamente democratico di reclutamento dei giovani.
È proprio la negazione di questo sistema, tramite la disponibilità di budget all’apparenza illimitati e il rastrellamento indiscriminato delle giovani promesse, che ha portato Juve, Inter e Milan a trasformarsi da società blasonate in “top club” in grado di monopolizzare il campionato nazionale.
Non serve essere esegeti della pallacanestro, basta scorrere l’albo d’oro della Nba per rendersi conto che non esistono serie storiche paragonabili alle dominazioni che si sono succedute sulla serie A. Dal 2001 lo scudetto si è sempre fermato a Milano o Torino, dove ha indugiato poco meno di un decennio consecutivo, nel corso del quale le prestazioni in Europa delle squadre italiane si sono progressivamente inabissate. Nello stesso periodo, il titolo Nba – al quale attualmente concorrono ben trenta franchigie – è stato vinto da nove squadre diverse.
Paragone più strampalato, insomma, era difficile da concepire.
Il bue che dà del cornuto all’asino
Una delle conseguenze più comiche dello strappo è stata la reazione di Uefa e Fifa.
Serviva uno choc bello robusto per dare il coraggio a Ceferin e Infantino di vestire i panni delle vestali dello sport popolare.
Gli stessi organi che hanno concepito una Champions League elefantiaca, un Europeo a 24 nazionali e un Mondiale da giocarsi d’inverno nel Qatar sono inorriditi di fronte all’ipotesi di un nuovo torneo che sfuggirebbe alla loro giurisdizione.
Sentirli accusare qualcuno di avidità ha un che di paradossale, dopo le gestioni quantomeno opache sul piano finanziario di Platini e di Blatter, ma la minaccia repentina della scissione ha avuto l’effetto di farli apparire i capofila dei lealisti, i primi sostenitori dei valori romantici e inclusivi del “meraviglioso giuoco”.
Hanno avuto dalla loro un fuoco di sbarramento poderoso, l’unanime appoggio delle istituzioni, la messa all’indice dei golpisti sui media di tutto il Vecchio mondo, il supporto dei tifosi britannici, compresi quelli dei club fondatori della Superlega, scesi in strada per denunciare lo scempio.
Va da sé che arginare la deriva è la priorità di chi ancora ama il calcio come espressione popolare. Chi si esalta per lo sterminato tabellone della FA Cup, dove una squadra delle divisioni inferiori può in linea teorica raggiungere la finale, per le “favole” come quella del Leicester e le maglie retrò, è antropologicamente contrario a una qualsiasi Superlega, semmai vorrebbe il ripristino della Coppa delle Coppe.
Questo Ceferin e Infantino lo sanno bene, come sanno che le vetrate delle curve sono costellate di adesivi sui quali si legge “UEFA = mafia”, e che i Mondiali nel deserto rischiano di rappresentare il clamoroso colpo d’arresto di una storia epica iniziata nel 1930.
Il punto è che dell’opinione dei romantici non sanno che farsene; le loro organizzazioni hanno calpestato ogni tradizione in nome degli stessi principi che stanno dietro alla nascita della Superlega, il mostro a due teste chiamate profitto e spettacolo.
È il loro calcio che ha prodotto la spaccatura insensata fra “top club” e comprimari, il calcio-spezzatino, i biglietti di curva da 50 euro, i primi stadi inaccessibili ai non abbonati, da ultimo la scientifica imperfezione degli abbonamenti tv che non bastano mai a vedere tutte le partite.
Sono stati loro i primi a rivolgersi alla platea globale, a consentire lo strapotere dei fondi d’investimento e il saccheggio legalizzato da parte dei procuratori, a contentarsi di un fair play finanziario fasullo, e solo ora che la magia sfugge loro di mano, si rivoltano con uno sfoggio ipocrita di moralismo degno delle “comari del paesino” cantate da De André.
Un cocktail a base di cicuta
L’unica cosa chiara, in questo pasticcio senza precedenti, è che la torre del calcio vacilla come non mai.
L’idea che ci avrebbe accompagnato per sempre così come lo conoscemmo da ragazzi è già morta, e invidiamo l’allegria di chi si berrebbe pure il veleno perché il progresso è l’anima del mondo, l’evoluzione prevede le novità, e dopo tanti calici di rosso e boccali di birra, dopo gli spritz e i negroni sbagliati, vuoi non provare col sorriso sulle labbra un buon cocktail a base di cicuta?
I nostri giulivi amici che scommettono a scatola chiusa sul progresso si sentono in accordo con le ipotesi di Darwin, ma forse non si rendono conto di appartenere essi stessi a una specie in via di estinzione.
Non è a loro che si rivolge la Superlega, e non è a loro che si rivolgerà il governo tradizionale del calcio una volta sedata la rivolta dei ricchi con un compromesso bastevole a ritardare di qualche tempo la scissione, nel tentativo di governarla insieme ai club invece di subirla e basta.
Il tifoso europeo medio, quello che andava allo stadio dopo il pranzo della domenica o addirittura osava le trasferte, non è più il target del calcio, e chi si ostina a tifare per un club fuori dal giro grosso è solo un risibile ostacolo alla sua metamorfosi.
“Rappresentiamo l’80 per cento dei tifosi italiani”, ha ricordato Agnelli, riferendosi alle tre scissioniste. Il calcolo è assai generoso, ma il fatto stesso che la percentuale metta sullo stesso piano abbonati di lungo corso, sostenitori tiepidi e semplici simpatizzanti che si contentano di comprare il telo-mare della Juventus è di per sé una dichiarazione d’intenti.
Il bacino d’utenza che Agnelli, Zhang e Gazidis si prefiggono di raggiungere sono i milioni di giovani cinesi, giapponesi, indonesiani e arabi che non hanno mai messo piede a Torino ma acquistano la maglia di Cristiano Ronaldo e fanno vincere la Juve in Champions League giocandola al computer. Amano gli highlights più delle partite intere? Le statistiche più delle moviole? Le maglie a zig-zag, a pennellate, iridescenti o guarnite di pelo sintetico più delle noiose casacche tradizionali? La Superlega sarebbe lieta di andare loro incontro, e se non vuole farsi scalzare di sella andrà loro incontro anche il governo del calcio mondiale, che a quel punto però non sarà più calcio, ma imitazione, parodia, finzione del calcio.
E a noi che ricordiamo con tenerezza i mercoledì di Coppa, i pennacchi di fumogeni, le bandiere al vento e i cori ritmati dai tamburi, le trasferte sui treni speciali per vedere la nostra squadra strappare un pareggio al Rigamonti o perdere al Granillo di Reggio Calabria, a noi, dicevo, cosa resta?
Nient’altro che la promessa di uno schianto tanto rumoroso da produrre una palingenesi, un ritorno a un campionato più equo dove i meriti effettivi producono risultati, e può capitare che lo scudetto sia cucito nuovamente, come accadeva nella seconda metà del secolo scorso, sulla casacca del Torino o del Bologna, della Fiorentina o del Cagliari, della Lazio o della Roma, del Verona, del Napoli o della Sampdoria, che torni prima o poi al Genoa o alla Pro Vercelli, o che finisca per la prima volta a Bergamo.
Non sappiamo granché delle leggi del profitto ma, a nostro gusto, quello sì che sarebbe uno spettacolo.
Articolo pubblicato in accordo con MalaTesta Lit. Ag. Milano