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Il Foglio sportivo

È la Germania il modello da imitare?

Giorgio Dusi e Giorgio Tosatto

Dopo il flop della Superlega il calcio si interroga su come cambiare. L’egemonia Bayern e la Bundesliga sostenibile

L’approdo di Julian Nagelsmann sulla panchina del Bayern Monaco ha riacceso il dibattito sull’egemonia del club bavarese in Bundesliga. I campioni di Germania, che sono a tre punti dal nono titolo consecutivo, hanno pagato una trentina di milioni per slegare il vincolo contrattuale tra il tecnico 33enne e il Lipsia, ovvero la squadra che li insegue in classifica e, insieme al Borussia Dortmund, teoricamente deputata a contendere loro il titolo. Il tema del cannibalismo bavarese verso le concorrenti in realtà appassiona più all’esterno che all’interno della Germania. Raphael Honigstein, firma di The Athletic, ha spiegato come “la competitività in vetta non sia così importante, perché i fan tedeschi seguono a prescindere e in generale a livello internazionale c’è più seguito ora che nel decennio scorso”.

 

 

Buona parte di questo apparente paradosso è dovuta a una norma che piace poco fuori dalla Germania, ma che permette il mantenimento del sistema: la regola del 50+1, che prevede che tutti i club siano di proprietà almeno per il 50 per cento più uno di differenti soci del club. Nei fatti, un sistema di azionariato popolare che impedisce l’arrivo di investitori dall’esterno che possano prendere il controllo totale del club, rendendo le società meno attrattive per i soldi arabi, cinesi o americani. Lo scopo è quello di mantenere il decentramento del potere delle squadre professionistiche, al fine di proteggere gli interessi sportivi dei club rispetto agli interessi economici. Stabilità è quindi la parola d’ordine e l’oculatezza economica è alla base: 8 club su 18 hanno generato profitti operativi nella stagione 2019/20, nonostante l’impatto del Covid-19. Tra questi, anche il Bayern: 17 milioni di euro di profitto pre tasse. Non a caso si dice che a Monaco i soci festeggino più un bilancio in positivo a novembre che un Meisterschale a maggio.

 

La potenza economica costruita dai bavaresi grazie a investimenti indovinati e continuità di risultati, dai tempi di Gerd Müller e Beckenbauer a oggi, ha scavato un gap prima di tutto economico. Nel corso degli anni è stato il Borussia Dortmund ad avvicinarsi di più con continuità, sia negli anni Novanta sia all’inizio dello scorso decennio. Nel 2005 però i gialloneri hanno visto in faccia il fallimento: soltanto l’abilità finanziaria dell’attuale CEO Watzke e del presidente Rauball hanno permesso alla società di sopravvivere e nel giro di sei anni arrivare anche al titolo. Tuttora però il Borussia non può permettersi grossi investimenti (raramente compra sopra i 25 milioni di euro) o ingaggi faraonici da 15 milioni lordi l’anno. E neanche il Lipsia, che è arrivato in Bundesliga soltanto nel 2016, nonostante abbia già mosso passi da gigante. Il Bayern invece può permettersi investimenti maggiori, oltre ad avere un appeal internazionale impareggiabile, al cui fascino ha ceduto ad esempio anche Lewandowski.

 

L’acquisto del polacco da svincolato ha rappresentato per la verità un’eccezione: lui e Goretzka sono gli unici parametri zero degni di nota che il Bayern ha ‘saccheggiato’ alle rivali. Gli altri giocatori sono stati acquistati sul mercato interno con esborsi di rilievo, normalmente tra i 25 e i 40 milioni. Alcuni, per la verità, sono stati delle scommesse, vedasi Kimmich e Gnabry. Risulta comunque difficile trovare un top club europeo dominante che non faccia lo stesso nel proprio campionato: da Barcellona e Real al PSG, fino a (soprattutto) la Juventus. Nessuna però agisce in un sistema finanziario come quello della Bundesliga, che permette di controllare gli esborsi e non si concede rischi. Una ricerca di KPMG sulla stagione 2018/19 ha mostrato come 8 top club europei avessero un rapporto tra stipendi e ricavi operativi maggiore al 70 per cento. La media della Bundesliga va a malapena sopra il 40.

 

 

Ai club interessa più questo dato che il sentirsi ‘saccheggiati’ da una potenza economica e sportiva irraggiungibile come quella del Bayern. Anzi: i soldi bavaresi entrano e rimangono in un sistema che alla fine ha finito per beneficiarne dal punto di vista della crescita economica e soprattutto della sostenibilità, parola tanto d’attualità in periodo di (fu) Superlega. Prezzi calmierati che non si sono gonfiati nemmeno con la bolla generata dai 222 milioni pagati dal PSG per Neymar. Il sistema calcio tedesco di fatto si protegge da queste eventualità grazie all’azionariato popolare. Ne beneficiano i bilanci, ne beneficia il mercato. Prezzi accessibili, nei limiti di spesa di ciascuno, da cui raramente si esce. Anche se ciò implica un ribaltamento più difficile delle gerarchie. Tutti vorrebbero vedere un campionato più combattuto, ma la salute dei club ha la priorità e per mantenerla lo sviluppo storico del campionato – fino a fine anni Novanta i club erano ‘no profit’ – ha dimostrato che c’è bisogno anche di un Bayern Monaco così ingombrante tecnicamente, ma il cui voto nell’assemblea della Federazione vale quanto quello dei Würzburg Kickers, ultimi nella 2. Bundesliga.

 

L’esistenza del Bayern è quindi la condizione necessaria perché il sistema calcio tedesco sia sostenibile. Un concetto per certi versi simile a quello della Superlega, al netto però di bilanci in rosso e un disinteresse verso ciò che potrebbe accadere ai sistemi ‘funzionanti’. Da quest’ultimo punto nasce il no: in Germania il fronte ‘anti’ si è compattato senza eccezioni. Perché il modello funziona, i club stanno in piedi e salvo rari casi sono in salute, mentre altri campionati non sono in grado di creare un sistema sano e i club operano in contesti resi poco sostenibili da decisioni proprie e di terzi. La Bundesliga però ne vuole star fuori, ragionevolmente. Non vuole essere danneggiata. In fondo, per loro, meglio un’egemonia oggi che una Superlega domani.

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