Parte la caccia alla seconda stella
Lo scudetto dell'Inter è il capolavoro di Antonio Conte
C'è lui in ogni minuto di questa squadra e in ogni metro quadro di campo conquistato e difeso con una razionalità che sfocia nel cinismo
Il più arci-italiano degli allenatori alla guida dei nerazzurri riesce a vincere un trofeo, spodestare la Juventus e cambiare il senso della vita di una squadra per definizione inaffidabile
“Sei sempre tu, Maresca!”, erano state a Udine le ultime parole del girone d'andata dell'Inter, abbaiate un po' alla luna da un Antonio Conte che, come spesso gli succede, stava inondando l'atmosfera di fumogeni per oscurare qualche inquietudine personale. Da quel giorno l'Inter ha giocato 15 partite di campionato, vincendone tredici e pareggiandone due, finendo in svantaggio solo per una manciata di minuti a Napoli e La Spezia. Già a novembre Conte si era sbarazzato della zavorra della Champions, competizione con cui non ha mai avuto alcun feeling, e a febbraio ha sacrificato la semifinale di Coppa Italia per pretendere dai suoi 15-16 giocatori (a quel punto non ne servivano altri) ascetica concentrazione e dedizione a una causa che si faceva attendere da dieci anni: vincere un trofeo, spodestare la Juventus, cambiare il senso della vita di una squadra per definizione inaffidabile, che invece a primavera ha infilato una serie di partite dall'andamento inevitabile, risolte nei secondi tempi con il proverbiale Darmian, assurto nel corso dei mesi all'Homo Contianus per eccellenza, erede naturale dei Matri e Giaccherini nobilitati ai tempi della Juventus.
Quarto allenatore della storia della serie A per turni passati in solitaria in testa alla classifica (proprio ieri ha agganciato Nils Liedholm e a fine campionato sarà arrivato a quota 99, a una sola giornata da Helenio Herrera), quel gran genio di Antonio Conte è il più arci-italiano degli allenatori. La sua forma mentis lo rende il tecnico ideale per quelle maratone di 38 chilometri che sono i campionati di calcio: ormai domina la materia con piglio da guru, imponendo le mani e i pensieri, tanto che nel 2021 gli sono stati sufficienti un paio di colpi di cacciavite per rendere perfetto il suo gioiellino, addirittura facendo sempre gli stessi cambi da marzo in poi (Sanchez-Martinez, Sensi-Eriksen, Darmian-Perisic e viceversa...) mentre tutt'intorno i suoi colleghi s'affannavano e si struggevano tra cambi di modulo, infortuni, cali di forma e pressioni non meglio precisate. Abbiamo a lungo identificato la forza dell'Inter nella solita LuLa, Lukaku e Lautaro che facevano reparto da solo letteralmente, molto più di quanto volessero dire le convenzioni giornalistiche: ma c'è Conte in ogni minuto di questa Inter e in ogni metro quadro di campo conquistato e difeso con una razionalità che sfocia nel cinismo. Sì, cinismo: il cinismo con cui ha abiurato a confuse idee autunnali un pochino più offensive, dimostrando al mondo quanto fossero inadeguate nelle seratacce di Champions. Con cinismo squalesco ha fatto abbassare le ali all'effervescente Hakimi, magnifico nelle sue scorribande autunnali quanto inadatto all'idea di calcio contiano, martellante come la discografia dei Rammstein; ha abbassato di venti metri prima lui e poi l'intero trio Skriniar-De Vrij-Bastoni, che non chiedeva di meglio. Quindi ha tolto di mezzo Vidal, a lungo invocato e preteso, accettando il fatto che si fosse rivelato il giocatore col peggior rendimento della rosa; poi ha normalizzato il ninnolo Eriksen, spogliandolo da ogni pallore scandinavo per farne un pistone della sua macchina a vapore, simboleggiato dalla rabbiosa spazzata in tribuna negli agonici minuti di recupero di Inter-Atalanta 1-0, la partita che ha anticipato gli squilli di tromba. A quel punto tutta la squadra era già naturalmente sincronizzata sui respiri del tamburino sardo Barella, per due terzi di stagione anima dell'Inter e miglior centrocampista del campionato, prima di un fisiologico e benvenuto calo primaverile. Conte ha seguito alla lettera il copione interista che vuole gli allenatori trasformarsi lentamente in condottieri, sostituendosi per lunghi mesi alla società, a cominciare dalla proprietà cinese uccel di bosco per continuare con Marotta, costretto dal Covid a lunghe settimane di ospedale, e diventando dittatore tecnico di tutta la baracca. Infine ha sopperito a un portiere-capitano in evidente fase calante nel modo più elementare e difficile: semplicemente impedendo che gli arrivassero tiri in porta, trasformando Lautaro in una specie di Eto'o mourinhiano 2.0, rassegnandosi ad abbandonare Lukaku al suo destino (e in primavera la sua media-gol ne ha risentito parecchio) nella strenua difesa di ogni maledetto clean sheet.
È un capolavoro quest'Inter 2020-21, un'opera d'arte come suggerito dalle banalità che Conte ammannisce a una stampa italiana specializzata e non che, quando si vince, si accontenta di qualunque scemenza provenga dalla bocca di un allenatore? Non sapremmo, ma ha vinto da Inter: compatta come il titanio, nelle rivali ha provocato più esasperazione che ammirazione. Un'Inter esasperata ed esasperante da un certo punto in avanti, troppo superiore alle singole inadeguatezze altrui, dalla Juve “di rottura” di Pirlo travolto dagli eventi (nonché dall'Inter stessa, a cominciare da quel 2-0 di gennaio che è stato il vero passaggio di consegne), al Milan troppo acerbo e immaturo per tenere testa, anzitutto mentalmente, al cambio di passo alla Lukaku che l'Inter ha innescato nel girone di ritorno. Il bello e il difficile viene ora, perché l'interista medio pretende un ruolo da protagonista anche in Europa, a maggior ragione perché il sorteggio di Champions dell'anno prossimo vedrà i nerazzurri in prima fascia. Che ne penserà Antonio? Se rimarrà – è molto probabile che rimanga, ma sapete com'è Conte... – sta già preparando il discorso di fine campionato in cui giura, con la sua solita faccia invetriata, che nel 2021-22 nulla al mondo sarà più importante della Seconda Stella.