Un Giro d'Italia pieno di domande senza risposte
Tra chi vorrebbe raggiungere Milano vestendo la maglia rosa i dubbi sono molto più delle certezze. A tal punto che tutto appare possibile, fattibile. Da Bernal a Evenepoel passando da Yates e Landa, tutti i tormenti degli uomini di classifica
L’unica certezza al Giro d’Italia 2021 è il percorso (qui tutte le tappe di questa edizione). Ventun tappe per 3.479,9 chilometri totali, tre cronometro ad aprire chiudere e dare il giro di boa alla corsa, 44 salite per 405,9 chilometri complessi e un dislivello di oltre 25mila metri. Almeno a dirlo in numeri.
Il resto è tutto un complesso di cose che fa sì che tutto rimanga appeso in bilico come una maglia rosa stesa senza mollette sui fili del balcone. Perché tra chi vorrebbe raggiungere Milano vestendo il simbolo del primato i dubbi sono molto più delle certezze. A tal punto che tutto appare possibile, fattibile.
Diceva Luciano Pezzi – prima sagace corridore dell’èra di Bartali e Coppi, poi direttore sportivo di Gimondi e Moser, infine deus ex machina della Mercatone Uno di Pantani – che “nulla è meglio dell’incertezza per rendere spettacolare una corsa. A patto che quella corsa non la si voglia vincere”.
E questa corsa, questo Giro d’Italia numero 104, la vorrebbero vincere in molti (qui trovate tutti gli iscritti alla corsa rosa). Ma di questi molti, per una cosa o per l’altra, la quasi totalità ha qualche domanda a cui non sa rispondere.
Non sa rispondere Egan Bernal al quesito che lo tormenta da quasi un anno: farà ancora scherzetti la mia schiena?
E una risposta non trova neppure Remco Evenepoel alle due domande che gli frullano in testa: a che punto sono con la forma visto che non corro dal Giro di Lombardia dello scorso anno? E riuscirò a sopportare tre settimane di una corsa dove ogni giorno (o quasi) può succedere un macello?
Vincenzo Nibali invece guarda il suo polso tenuto insieme dalle viti e da una piastra e poi scende sino alle sue gambe chiedendo loro: che facciamo? Possiamo farcela?
Simon Yates dei suoi polpacci e dei suoi quadricipiti ha invece fiducia. È al futuro che guarda, alla distanza che già una volta l’ha fregato. Reggo?, si chiede. La speranza e i chilometri d’esperienza lo fanno sorridere convinto, ma è un sorriso che mostra alcune crepe di convinzione.
Aleksandr Vlasov osserva gli altri e si guarda alle spalle, si domanda se ha imparato dagli errori, se tre settimane di concentrazione totale le potrà reggere.
Mikel Landa cerca di non chiedersi niente, prova ad andare avanti a testa bassa per inseguire ciò da anni sa di poter raggiungere ma che gli è sempre sfuggito. E allora qualche nube lo avvolge e i suoi occhi scuri e sempre un po’ malinconici si fanno vacui.
Romain Bardet si gode il momento che finalmente è giunto, sorride timido al suo tanto agognato primo Giro d’Italia e cerca di non pensare al dubbio che lo tormenta da un po’: sarò davvero capace di ritornare il corridore che ero o che mi hanno fatto credere di essere? Quello capace di salire due volte sul podio del Tour de France.
Jai Hindley guarda Bardet, suo compagno di squadra, e si domanda se quello dell’anno scorso è stato un caso o davvero lui può essere uno dei grandi protagonisti delle corse a tappe di questi e dei prossimi anni.
Emanuel Buchmann di chiede perché non è ancora riuscito a tornare quel corridore che riuscì a concludere al suo quarto posto il Tour del 2019.
Dan Martin si arrovella sul corridore tenace che è e sui suoi vuoti, quelli che ciclicamente gli hanno presentato il conto in questi anni levandolo dalle primissime posizioni dei grandi giri.
George Bennett, Marc Soler e Giulio Ciccone sono alle prese con lo stesso dilemma: è davvero il mio momento? Quello giusto nel quale posso fare la mia corsa, quella che sono e aspetto da un po’? O capiterà qualcosa come sempre è capitato a rimandare ancora una volta questo momento?
Hugh Carthy invece non si domanda niente. Sorride al Giro d’Italia con la sua levità, quella di chi non ha pretese e sa godersi il momento, l’attimo, la fortuna incredibile di correre in bici e farlo nelle gare più straordinarie del mondo. Un po’ come João Almeida e Jefferson Cepeda, pronti ad afferrare quello che questo Giro gli concederà di afferrare. La pressione è su altri. Il portoghese sa che tutta l’attenzione è sul suo compagno di squadra, Evenepoel, e che in molti sono ancora convinti che i suoi 15 giorni in maglia rosa l’anno scorso furono un caso. Ci pensa mica a tutto ciò Almeida. Sa benissimo quanto può andare forte e quanto è bello indossare quella maglia. Ci vuole riprovare. L’ecuadoriano invece se ne sta zitto in disparte, pronto a trasformare le salite nella sua personalissima pista da ballo. Degli altri non se ne cura perché sa che non se ne deve curare: qualsiasi cosa arriverà sarà meravigliosa.
E neppure Pavel Sivakov e Pello Bilbao si fanno troppi problemi. Tanto loro sono al Giro a far da spalla al loro capitano. Sempre che regga il loro capitano. In caso contrario qualche domanda se la faranno, ma a tempo debito.
Hanno tutti tre settimane di tempo per trovare le risposte. Sempre che di risposte ce ne siano davvero.