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Il Foglio sportivo

Che ridere lo scudetto dell'Inter. Il tifo secondo Enrico Bertolino

Fulvio Paglialunga

Nerazzurri si nasce. Felicità e malinconie interiste del comico milanese. “Ora siamo pronti a tutto”

Per una volta sono gli altri a far ridere Enrico Bertolino, comico di professione. Se volete sapere il segreto per riuscirci, è semplice: basta chiamarsi Inter e vincere lo scudetto. Oddio, forse semplice no, visto che ci sono voluti undici anni per tornare al successo, ma comunque l’effetto si nota appena Bertolino risponde. Che poi lui, quando è in scena, è incredibilmente serio: la sua specialità sul palco e in tv è far partire la battuta in un momento di apparente aplomb, mantenere un certo tono anche mentre il discorso sta deragliando. Ora immaginatelo qualche giorno dopo il trionfo della truppa di Conte, quando il tifo l’ha premiato e può parlare da vincitore. Felice? Sembra proprio di sì. Il “sembra” lo metto perché è pur sempre interista, quindi preparato all’idea che il successo non duri troppo a lungo e allora chissà cosa c’è dopo, qual è la trappola nascosto dietro a questa gioia. Si raccontano così, quelli che tifano per i nerazzurri. Anche se fanno i comici di professione. E ridono, ma per un po’. Perché non si sa mai.

 

Facile dirsi interisti, adesso...
Facile, certo. Sta passando il carro dei vincitori e noi ci siamo sopra, dopo essere stati un bel po’ fermi. Non eravamo più abituati e ora abbiamo rotto un incantesimo.

 

Cos’ha fatto in questi undici anni?
Mi sono macerato, ma ho anche sperato. Perché la speranza è un viaggio, è come le ferie: ciò che ti godi di più è l’attesa e io, per undici anni, ho vissuto con la felicità dell’attesa. Che male non è, se penso alla sensazione strana di quando abbiamo vinto il triplete: eravamo sazi, ebbri, ma continuavamo a chiederci cosa potessimo vincere più di quello che avevamo appena vinto. Adesso è diverso.

 

Perché è diverso?
Perché sappiamo tutto, abbiamo vissuto qualunque cosa e siamo già oltre, siamo già pronti a sentire di guai finanziari e i problemi di mercato, sappiamo che cominceranno a circolare le voci sull’allenatore in partenza. Cominciano le rogne, perché un interista non ha mai tempo per gioire. Ricordo a me stesso, ogni volta, che Mourinho lasciò la squadra la sera stessa della finale di Champions vinta.

 

E due giorni dopo lo scudetto proprio Mourinho ha annunciato il suo ritorno in Italia, ma alla Roma. Cosa prova? È felice?
Chiederlo a me, dopo quello che mi ha dato, è come chiedere al vitello grasso se è contento del ritorno del figliol prodigo. Non so se sono contento, spero almeno che non sia bravo come lo è stato con noi. Sarà però divertente rivederlo in Italia, quello sì. E spero che ci sia il pubblico quando verrà a San Siro: gli dimostreremo quanto gli vogliamo bene e lui potrà dimostrare quanto ne vuole a noi.

 

A proposito di San Siro: è da interisti vincere nell’anno in cui non si può andare allo stadio?
Sì, non ho dubbi. Esiste una componente malinconica nell’interista che fa capitare sempre qualcosa. L’anno in cui vincemmo lo scudetto a Parma, durante la partita ci fu la lite Ibra-Mancini; la festa fu quasi più incentrata su quei malumori. E ne potrei citare altre. Quest’anno, invece, non abbiamo la possibilità di andare tutti a salutare la squadra, abbiamo vissuto un intero campionato con lo stadio vuoto. È una privazione non da poco. Ho visto cose curiose, come i fuochi d’artificio fuori da uno stadio per una partita senza gente. Una roba felliniana, mancava solo la musica di “Amarcord” di sottofondo. Solo l’Inter poteva vincere uno scudetto così. 

 

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Però l’anno scorso è toccato alla Juve, in condizioni uguali...
Ma era il nono consecutivo. Potevano permetterselo.

 

Siamo partiti dalla fine, perché era doveroso. Torniamo indietro, adesso. Mentre concordavamo l’appuntamento per l’intervista ho visto la sua foto su Whatsapp, in cui lei è una sorta di figurina Panini, con la maglia dell’Inter, ma la squadra si chiama “Inter-nati”. Che squadra è?
Non è una squadra, è una setta di interisti anonimi che, come gli alcolisti, si incontrano dal vivo o parlano di Inter in una chat di Whatsapp. Io sono stato coinvolto da Stefano Boeri, che è il presidente. Inizialmente eravamo in pochi, ora siamo diventati tanti, ma c’è un prerequisito: essere interisti da generazioni. Si va dai comici a Valentino Rossi, da Claudio Cecchetto ai giornalisti, chiunque. Di alcuni ho scoperto che sono interisti quando sono entrati nella chat.

 

 

Si sceglie una squadra sempre per un motivo. Ad esempio sto scoprendo un comico che tifa per la malinconia dell’Inter. C’è un motivo per cui si diventa interisti?
Non lo so. Io ci sono nato. Al primo prelievo il sangue era nerazzurro. 

 

Allora rifaccio la domanda: come si nasce interisti?
Nella mia famiglia non c’è nessuno che non lo sia, anche i cugini di Imperia, anche il ramo torinese della famiglia. Si narra che mio nonno andasse ogni tanto a prendere da qualche parte Peppino Meazza con la sua Balilla a quattro marce, magari perché Meazza aveva sbevazzato un po’ e aveva bisogno di qualcuno che lo riaccompagnasse a casa. Mi sono nutrito di queste leggende in casa, della tradizione orale del calcio. Quello che ora fa Buffa in tv, prima lo facevano le persone. Secondo me, di racconto in racconto, ognuno aggiungeva qualcosa di suo, ma era bellissimo.

 

Ma crescendo a Milano poteva capitarle di tifare per l’altra squadra, no?
Sarei stato buttato fuori da casa. C’era un codice preciso, ora staremmo parlando di un caso di emarginazione familiare. Per fortuna no. Anzi, con mia figlia uso gli stessi metodi: solo l’Inter.

 

Ci saranno, al contrario suo, milanesi nati milanisti. Li giudica?
Li prendo in giro. E vengo preso in giro. È la storia dei bauscia e casciavit, lo sfottò sulle origini, ma certo non è una faida religiosa come Rangers e Celtic in Scozia. Ci prendiamo sempre in giro con piacere. È più rischiosa la rivalità con la Juve: ci sono, tra gli interisti, antijuventini così integralisti che adesso non sono felici perché abbiamo vinto lo scudetto con Conte e Marotta in società.

 

Lei è felice, invece? Anche se ci siete riusciti grazie a due “juventini”?
Marotta l’ho conosciuto un po’ di anni fa a un evento. Gli dissi che una delle cose che invidiavo alla Juve era l’organizzazione che era riuscito a dare alla società. 

 

Non prendiamola larga...
Rispondo, rispondo. E dico, al contrario, che secondo me si prova ancora più gusto: li hai portati via e hai vinto tu. Conte, soprattutto, è stato accolto malissimo. C’era una tesi folle: che li avesse mandati la Juve per impedirci di crescere. Seghe mentali fatte strategia. Il dubbio degli interisti è sempre se essere interisti o anti-altri. Io sono interista e basta. Io contro la Juve ho perso le staffe solo per il fallo di Iuliano su Ronaldo, tanto che poi Iuliano lo trovai più volte nella palestra dove andavo anche io e iniziai a perseguitarlo: “Tu lo sai che era rigore, lo hai fatto tu. Dimmelo”. Ogni giorno che lo incontravo glielo chiedevo, finché non cominciò quasi a nascondersi perché non mi sopportava più. Poi incontrai la moglie e le dissi: “Chiedi a Mark se era rigore”. Però ho smesso. Anzi, se possiamo portare via qualche altro pezzo di Juve che ci aiuta a vincere io me lo prendo volentieri.

 

Avete appena vinto il campionato e riscoperto la gioia di ottenere un risultato. Non era così con la Superlega, di cui lei, anche se la tua squadra era coinvolta, ha detto tutto il male possibile...
Non mi è piaciuta per come è stata fatta. Capisco che vada fatto qualcosa, che il calcio vada salvato. Però non mi piace la Superlega e non mi piace nemmeno l’Uefa perché il calcio dà molto più di quello che prende. Al calcio va riconosciuto un ruolo importante, dobbiamo considerarlo per quello che è: in questi mesi è stato anche un’arma di distrazione, ha dato alla gente qualcosa da aspettare. L’idea di giocare tra supericchi non mi piaceva. Io voglio continuare a perdere partite con le provinciali: Gasperini fu mandato via dopo la sconfitta sul sintetico di Novara, ricordo un’Inter-Udinese persa in casa 1-3 con due gol di Marcio Amoroso, che stava svernando lì. Quelle partite sono anche nostre, invece sembrava volessero come scippare il calcio ai tifosi e infatti i tifosi se ne sono accorti. Sono loro, alla fine, sono quelli che lo tengono in piedi. Vedendo le partite giocate nel vuoto ci siamo resi conto di cosa vuol dire.

 

Finora abbiamo parlato solo di tifo. Ma si può amare il calcio senza tifare o avere una squadra da sostenere è un requisito fondamentale?
Credo di sì. Almeno, lo dico perché seguo gli allenamenti dell’Inter senza commento in tv, ma vedo anche partite stranissime di Bundesliga, sono andato allo stadio anche per partite di Coppa Italia in cui forse eravamo in trentacinque e sentivi gli stessi rumori che senti ora quando trasmettono le partite con gli stadi vuoti. Però tifare è una marcia in più. È come dire: la gricia è buona, ma poi la fai col tofu, o ami la carbonara e te la servono senza pancetta. Ecco, puoi amare la cucina, ma le ricette non devono essere incomplete. Io ho un’altra marcia in più ancora: amo il calcio anche perché ho giocato.

 

Alto com’è avrei detto basket...
No, calcio. Anche se a livello dilettantistico, ma ci ho giocato. Ho cominciato all’oratorio, dove eravamo noi stessi la mattina della partita a fare le linee di gesso con la macchinetta. Se la serata avevamo esagerato un po’ venivano fuori storte, e il prete ci cazziava. Uno dei miei presidenti ci dava, come premio partita, biglietti per lo stadio, sia del Milan che dell’Inter. E io andavo a vederle tutte. Le mie domeniche non finivano mai.

 

Ora sono curioso: in che ruolo giocava?
Facevo il libero, all’epoca c’era ancora. Quello che gli attaccanti veloci saltavano sempre, un ruolo pericoloso anche se ha fatto nascere figure mitologiche, come Beckenbauer. Poi ho fatto anche il terzino, ma alla terza sgroppata inciampavo nella lingua.

 

Per lei il calcio non è solo Inter, partite, tradizioni, ma anche attività sociale nel mondo...
È una forma di redenzione. Credo che il calcio possa fare bene e, siccome sono molto legato al Brasile, per la vita che ho fatto, per la mia famiglia, ho creato una Onlus perché volevo condividere le fortune con chi ne ha meno.

 

Cosa fa in Brasile?
Abbiamo creato scuole, asili, pronto soccorso e altro in un piccolo centro, Pitinga, dove abbiamo casa da tanti anni. Poi un giorno ho messo su una squadretta di calcio, ho dato a tutti della maglie dell’Inter e siamo andati a giocare contro un’altra squadra della zona. I ragazzi persero 10-0, giocavano con le tomaie disegnate sui piedi, non avevano scarpe, erano abituati alle partite sulla sabbia. Dissi: “Ci prenderemo la rivincita sul nostro campo”. “Ma noi non l’abbiamo”. “Torno in Italia, faccio una questua e poi lo facciamo”. Tanti mi hanno dato una mano e nel 2010, l’anno del Triplete, abbiamo inaugurato il centro sportivo Giacinto Facchetti di Pititinga.

 

Ma il calcio è un mondo serio? Un comico riesce a scherzare sul calcio?
È pericoloso farlo. Peggio della religione. Puoi scherzare su tutto, ma se fai un tweet sul calcio i tifosi avversari ti azzannano. L’unico che poteva giocare con questo argomento era Raimondo Vianello, ai tempi di Pressing. Ma lui era un maestro. Però è uno di quei temi su cui si scherza poco, non a caso il tifo viene chiamato “fede”. E sulla fede si fa fatica.

 

Mai avuto problemi nel suo lavoro per colpa del tifo così dichiarato?
Avrei dovuto condurre Sanremo, ma ero interista e non mi hanno voluto più. Ah no, a questa non crede nessuno perché l’hanno condotta Amadeus e Fiorello. Allora no, mai.

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