Illustrazione di BaGiGio

Il Foglio sportivo

L'assalto dei pischelli al Giro d'Italia

Giovanni Battistuzzi

Tra i favoriti alla vittoria molti hanno meno di 25 anni. I giovani in gara sembrano avere già pensionato i "vecchi". Sarà così davvero? Yates, Landa, Nibali e la resistenza degli esperti

C’era un tempo nel quale gli anni venivano bilanciati dall’esperienza. E il ciclismo rispondeva a un’equazione, più o meno precisa, nella quale la data di nascita segnata sulla carta d’identità veniva messa in relazione al numero di grandi corse a tappe disputate. Un calcolo matematico che faceva dire, con una certa sicurezza, che l’età nella quale si era pronti per lottare davvero per la vittoria del Giro d’Italia o del Tour de France rientrava in una forbice temporale che si apriva verso i 25/26 anni e si chiudeva attorno i 32/33.

 

Alfredo Martini, corridore di rara intelligenza dell’epoca di Bartali e Coppi e poi per oltre vent’anni commissario tecnico della Nazionale italiana di ciclismo, aveva addirittura fissato a 28 anni “il momento nel quale il ciclista professionista raggiunge la sua dimensione più completa”. Perché “alle gambe ancora nel massimo della forza aggiunge la capacità di sfruttarle, figlia dell’esperienza e della consapevolezza della sua dimensione d’atleta”, disse in un’intervista alla Gazzetta dello Sport nel 1998. Un algoritmo perfetto che però prevedeva una postilla: “Salvo significative eccezioni”. E queste significative eccezioni riguardavano “il talento innato. Perché possiamo anche creare lo schema matematicamente perfetto”, che ci spieghi il perché a una certa età si è più capaci di sfruttare le proprie caratteristiche fisiche e mentali in sella a una bicicletta, “ma se poi arriva un Eddy Merckx allora si può accartocciare tutti i calcoli e gettarli nel pattume”.

 

Per Alfredo Martini, al di là del Cannibale, l’esperienza e la capacità di valutare cosa è meglio fare in una corsa a tappe era una questione legata agli anni in gruppo. “Chi è riuscito a vincere prima del raggiungimento della maturità psicofisica, almeno nel Dopoguerra in poi quando la preparazione fisica divenne più scientifica, è stato quasi sempre soltanto chi è entrato nella storia di questo sport. Campioni eccezionali”. Eccezioni appunto. 

 

Jacques Anquetil vinse la sua prima corsa a tappe, il Tour de France del 1957, a ventitré anni; Felice Gimondi il Tour del 1965 a nemmeno ventitré; Eddy Merckx il Giro d’Italia del 1968 a 22; Bernard Hinault il Tour del 1978 a  24 da compiere.

 

Ventiquattro anni e poco più di un centinaio di giorni ce li ha Egan Bernal. Il colombiano, capitano del Team Ineos-Grenadiers, parte oggi, sabato, da Torino per l’edizione 104 del Giro d’Italia con il numero uno attaccato alla schiena e, almeno secondo le stime dei bookmaker, con i favori del pronostico. Bernal nella sua personale bacheca ha già un Tour de France, quello vinto nel 2019 a ventidue anni, e nelle gambe la possibilità di staccare chiunque. Lo ha già dimostrato, può dimostrarlo ancora, anche perché i problemi alla schiena, che lo hanno penalizzato fortemente l’anno scorso, sembrano (almeno in parte, bisognerà vedere quanto) essersi risolti.

 

Egan Bernal sogna la maglia rosa ma compete anche per la maglia bianca, quella riservata al miglior giovane e per la quale concorrono tutti i nati dopo il 1 gennaio 1996. Sono quarantanove in gruppo, molti di loro hanno la possibilità di terminare il Giro d’Italia sul podio di Milano o quantomeno tra le prime dieci posizioni della classifica generale. Anzi tra i più quotati per la vittoria del Giro (qui tutti i partecipanti, i favoriti, le tappe e le salite), sempre secondo i bookmaker, sono la netta maggioranza.

 

Il più giovane tra i giovani è Remco Evenepoel, 21 anni e un centinaio di giorni. Il meno giovane tra i giovani è Aleksandr Vlasov, 25 anni e pochi giorni. In mezzo ci sono, oltre al colombiano, João Almeida, Pavel Sivakov, Jay Hindley, Daniel Felipe Martinez, per restare tra i corridori con le quote più basse. Perché poi si potrebbero aggiungere pure Simon Carr, Jefferson Cepeda, Clément Champoussin, Harm Vanhoucke e Tobias Foss, gente con tanto talento e pochi anni, ma ancora un passo dietro, almeno per gli scommettitori, rispetto ai primi.

 

E così al loro cospetto Simon Yates, il corridore che al momento sembra essere il più in forma (oltreché il favorito numero due per la vittoria finale), che compirà 29 anni il 7 agosto, sembra essere nel ciclismo da decenni. Per non parlare dei secoli di Mikel Landa, che ha passato i 31, e di Romain Bardet e dei millenni di Vincenzo Nibali che a novembre ne farà 37.

 

L’eccezione ha invaso il ciclismo, ne ha riscritto, almeno in parte, le dinamiche. La pandemia si è limitata ad accelerare una tendenza che si era imposta già da oltre un decennio: quella di far sbarcare al più presto nel professionismo i corridori più meritevoli. 

 

Nel 2010 Peter Sagan venne ingaggiato dalla Liquigas a 20, età nella quale si iniziava un tempo a essere competitivi nella categoria dilettanti (ora under 23). Non è stato il primo ad anticipare i tempi, dopo di lui il fenomeno si è rafforzato tanto che ormai non ci si stupisce più se un corridore dal grandissimo potenziale come lo spagnolo Juan Ayuso, quest’anno vincitore del Trofeo Piva e del Giro del Belvedere (due tra le corse più prestigiose del calendario italiano U23), passerà già ad agosto tra i professionisti a non ancora diciannove anni.

 

Quando verso la fine degli anni Sessanta, assieme a Eddy Merckx, si affacciò al grande ciclismo una generazione di corridori fortissimi – come Roger De Vlaeminck ed Eric Leman, Walter Godefroot ed Evert Dolman (che però non riuscì mai davvero a dimostrare il suo enorme potenziale), Felice Gimondi e lo sfortunato Jean-Pierre Monseré –, capaci di spazzare via in pochi anni la generazione precedente, Alberic Schotte, per oltre un decennio direttore sportivo di una delle più importanti e vincenti squadre belga (Flandria e derivate) commentò lapidario: “Il ciclismo dà, il ciclismo toglie. Ogni tanto ci sono giovani più forti, ogni tanto giovani più pronti. In ogni caso c’è l’età che avanza e quella non te la rende indietro nessuno, nemmeno il Padreterno. C’è un’unica variabile: la velocità d’invecchiamento”.

 

Oggi come allora il ciclismo sta assistendo a un rapido cambio generazionale dovuto a un numero elevato di corridori di grande talento. Capita, questo sport si è evoluto spesso a ondate. Ma pensare che tutto ciò sia esclusivamente frutto dell’imprevedibilità dell’apparizione del campione è una semplificazione eccessiva.

 

Verso la metà degli anni Cinquanta il Belgio, epicentro di quella generazione di atleti straordinari, decise di puntare forte sul ciclismo con una politica di agevolazione fiscale per le squadre giovanili. Lo stato in pratica concedesse dei fondi per l’acquisto di biciclette da parte dei team e diminuì la tassazione a quelle aziende che decidevano di sponsorizzarli. In pochi anni le formazioni giovanili aumentarono del 25 per cento e il numero di ragazzini che iniziavano a correre in bici quintuplicò. Aumentare la base vuol dire avere più possibilità di scovare un campione.

 

Qualcosa di simile è accaduto, su scala decisamente maggiore, tra il finire degli anni Novanta del Novecento e la seconda metà degli anni Zero del Duemila. Soprattutto in tre paesi si è ripetuto quanto accadde in Belgio: Colombia, Gran Bretagna, Slovenia. In tutti e tre lo stato decise di puntare sul ciclismo di base, favorendo l’aumento delle squadre giovanili e l’accesso a uno sport che sì è disciplina popolare, ma che, al contrario di altri, ha degli ostacoli all’ingresso maggiori: il costo della bicicletta e la sicurezza stradale.

 

La Colombia negli ultimi anni del secolo scorso decise di rifondare il proprio sistema ciclistico, avvicinandolo agli standard europeo. Un decennio dopo iniziò la seconda fase del progetto, quello legato alla mobilità: rifacimento massiccio delle infrastrutture e riforma del codice della strada per favorire le biciclette. La Gran Bretagna puntò sulla costruzione di velodromi e sulle esenzioni fiscali per le aziende che sponsorizzavano le squadre ciclistiche, costruendo anche un centro federale che reclutava e faceva crescere i migliori talenti. La Slovenia unì, forse inconsapevolmente, i due esperimenti, creando le condizioni per l’aumento dei tesserati favorendo l’acquisto di biciclette e la sicurezza stradale. In tutti i tre paesi i ragazzini che si affacciarono al ciclismo quadruplicarono in meno di un lustro.

 

Nel 2019 Egan Bernal vinse il Tour, primo colombiano nella storia a riuscirci. L’anno scorso fu il momento di Tadej Pogačar, primo sloveno nella storia a riuscirci. I britannici è da un decennio che vincono.

 

L’allargamento della base è il primo passo per avere la possibilità di trovare un campione. Poi arriva il resto. Ossia trasformare un talento potenziale in un talento reale. Un tempo servivano anni per farlo. Ne servono meno oggigiorno. E questo perché, come sottolineava Schotte, la variabile è la velocità d’invecchiamento, che per un giovane non è altro che la velocità di maturazione. Questa è stata incrementata dalla tecnologia.

 

Se per decenni e decenni era la consapevolezza di se stessi a determinare la capacità di sfruttare al meglio il proprio corpo (salvo significative eccezioni, a dirla con Alfredo Martini), ora questa è agevolata dai dati relativi alle prestazioni degli atleti. Sul display dei ciclocomputer che stanno sui manubri degli atleti ormai è possibile controllare gran parte delle informazioni sul proprio fisico. Le altre le si possono consultare nei computer di chi questi li sa analizzare. In pratica un corridore sa benissimo qual è la sua condizione fisica e fino a dove si può spingere. Tutto ciò è un vantaggio non da poco, in quanto permette ai più giovani di capire più velocemente del passato quali siano i loro limiti fisici e sino a che punto possono spingersi.

 

Ovviamente tutto ciò non ha trasformato il ciclismo in una scienza esatta. Questo sport, oggi come sempre, si corre in strade di uso quotidiano, è incline all’imprevisto, che sia meteorologico o legato alle dinamiche di gara o all’incrocio perenne tra fortuna e sfortuna. I dati hanno però certamente aiutato ad accelerare il processo di maturazione per i giovani. L’esperienza è meno decisiva, per quanto conti ancora, servono gambe e gambe buone. E la nuova generazione che si è affacciata al professionismo in questi anni ne ha di ottime.

Di più su questi argomenti: