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Maglia rosa, ma celeste Bianchi
Bruno Mealli ricorda i suoi giornihttps://www.ilfoglio.it/tag/maglia-rosa/ da primo in classifica al Giro d'Italia del 1965
Giro d’Italia 1965. Ottava tappa, la Maratea-Catanzaro, 203 chilometri. Andò via una fuga. Ed era buona. Minuti su minuti. Poi si sbriciolò. Vinse Frans Brands, belga. E Bruno Mealli, ottavo a 45 secondi, conquistò la maglia rosa.
“Correvo per la Bianchi, con la maglia Bianchi, su una Bianchi, innamorato della Bianchi. La amavo da sempre, da quando ero piccolo, da quando avevo conosciuto Fausto Coppi. Era successo a Città di Castello per una riunione tipo pista, fui portato dentro lo spogliatoio, ‘eccolo’, gli strinsi la mano, poi – si usava e si osava – gli chiesi anche un autografo. Così la mia prima bici, malandata, non poteva che essere una Bianchi, anche se pesava un chilo più delle altre, ma era così bella, di quel colore verde acqua, fantastica in discesa, teneva la strada anche senza le mani sul manubrio”.
“A casa si respirava aria di ciclismo. Mio zio Adalino aveva corso da professionista negli anni Trenta, Wolsit e Legnano, anche al Giro d’Italia, quarto nel 1936 quando a vincere fu Gino Bartali, e da allora Bartali, a sentire dire o parlare di un Mealli, storceva la bocca, come se gli fosse rimasto quell’attrito da corridore, da corsa, da concorrenza. Lo zio Adalino ci riprovò dopo la guerra, ma ormai era tardi. E l’eredità del ciclismo l’abbiamo raccolta noi: Marcello, Franco e io. Una delle mie prime corse a Firenze, ma in bici ero montato da poco e non ci sapevo neanche andare, tant’è che attraversando i binari di un tram scivolai e ruppi tutti e due le ruote, appiedato e ritirato. La prima vittoria nel 1954, a 16 anni, categoria allievi, a Pistoia. Mi dissi: chi vuoi che il giorno di Pasqua rinunci alla festa o al pranzo per correre in bici? Mi sbagliai: alla partenza c’erano forse più corridori del solito. E invece mi andò bene”.
“Alla fine degli anni Cinquanta c’era il blocco olimpico per Roma, mi trasferii proprio a Roma, nella Faema Preneste, in squadra anche Vittorio Adorni, poi però niente Giochi. Passai professionista nel 1961. Con la Bianchi. Quell’anno una vittoria, al Giro del Lazio, una classica, 275 chilometri, l’arrivo a Fiuggi. Tutto il giorno in fuga finché rimasi da solo. Mangiai poco e andai in crisi. Ma potevo contare su tre minuti di vantaggio. Da Fiuggi Fonte a Fiuggi Alta non ci sono neanche tre chilometri, riuscii a perdere un minuto a chilometro e a vincere per un pelo, Fontona – secondo – mi arrivò a ruota. Poi conquistai altre vittorie, tappe al Giro d’Italia, al Giro di Catalogna e al Giro di Lussemburgo, al Giro dell’Emilia, ancora al Giro del Lazio e al Giro di Romagna, e i campionati italiani. Con i guadagni mi feci una casa e mi costruii una famiglia”.
“Quel Giro del 1965 cominciò insonne. Dopo Ignis e Cynar, ero tornato alla Bianchi. In squadra c’era anche Meo Venturelli, gran corridore ma senza testa. Era in rotta con Pinella De Grandi, il direttore sportivo. Siccome Meo correva poco e si allenava niente, la Bianchi gli doveva due mensilità, lui le pretendeva altrimenti non avrebbe corso, ma Pinella sapeva che se gliele avesse date, poi Meo se ne sarebbe tornato a casa. La prima tappa era da San Marino a Pesaro. Tira e molla, Pinella allungò i soldi a Meo, poi si raccomandò a Pierino Baffi: ‘Tienilo d’occhio e portamelo all’arrivo’. Baffi se lo incollò alla ruota e lo trascinò all’arrivo. O meglio: fino a 300 metri dall’arrivo. Perché a 300 metri dall’arrivo si girò e Meo non c’era più. Scomparso. Sparito. Volatilizzato. Aveva scavalcato le transenne, si era introdotto in un portone e rifugiato in un androne, finendo fuori tempo massimo. Poi, con la tappa di Catanzaro, le cose in casa Bianchi migliorarono. Mantenni la maglia rosa nelle tappe di Reggio Calabria, Palermo, Agrigento e Siracusa, fino alla cronometro Catania-Taormina, 58 chilometri. Mi impegnai, arrivai nono, ma a tre minuti e mezzo da Adorni, che riconquistò il primato e lo conservò fino a Firenze”.
“A casa, in un quadro, ho sistemato quattro maglie: Bianchi, azzurra, tricolore e rosa. Il resto ce l’ho nel cuore. Ho nel cuore Gastone Nencini, toscanaccio, fiasco impagliato di vino Chianti e pacchetto di sigarette sul comodino. Ho nel cuore Ercole Baldini, da corridore, quando non riusciva a non mangiare, alla vigilia del Giro di Reggio Calabria, dopo cena, insieme a fare due passi prima di andare a dormire, davanti a una favolosa gelateria non si resistette alla tentazione, ogni compagno un gelato, lui due, un cono nella mano destra e un cono nella mano sinistra. Ho nel cuore Baldini anche da direttore sportivo, quando la Salamini fallì ci fece finire la stagione con i suoi soldi. Ho nel cuore Idrio Bui, che al Giro dell’Emilia del 1962, una dozzina di corridori in fuga, rincorreva e andava a prendere tutti quelli che scattavano, poi in volata vinsi io, ma metà, se non trequarti della vittoria spettava a lui. E appena finisce questo marasma, si andrà a cena insieme, io e quel piccolo grande uomo di Bui. Tanto, dalla mia Terranova Bracciolini alla sua Sinalunga, è un attimo”.
Al Giro d’Italia del 1931, il 10 maggio, debuttò la maglia rosa come simbolo del primato nella classifica generale. Novant’anni dopo, per celebrarla, raccontiamo brevi storie legate a quei giorni da numeri 1. Qui trovate tutte le puntate.
Il Foglio sportivo - IL RITRATTO DI BONANZA