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Quando la maglia rosa si trasformò in gialla
Ruggero Gialdini era considerato la grande promessa del ciclismo italiano negli anni Settanta. Al Giro d'Italia dilettanti del 1975 conquistò undici maglie di leader su dodici. Il rosa però non c'era, era gialla, ma non giallo Tour
Il ciclismo lo mise immediatamente alla prova: “La prima corsa, nel Cremonese, piatta. Diciassette corridori all’arrivo, io sedicesimo. Premiavano i primi quindici più l’ultimo. Fui l’unico a tornare a casa a mani vuote”. A mani vuote, ma con il cuore pieno: “Mi ero incuriosito, mi ero divertito, mi ero appassionato, mi ero anche stancato. L’avevo finita, e c’era ancora qualcuno – be’, solo uno – dopo di me”. Morale, ci riprovò: “Avevo scoperto un nuovo mondo. E cominciai a scoprire anche me stesso”.
A settant’anni, quasi settantuno, Ruggero Gialdini continua a correre, scoprendo un nuovo mondo e scoprendo ancora se stesso. “Mantovano di Cavriana, adesso di Guidizzolo. Contadino, figlio di contadini, un fratello e una sorella, lui il secondo dei tre. Quinta elementare, poi a lavorare nei campi. Un giorno me la vidi brutta, rischiai di rimanerci, quasi ci lasciai le penne. Invece ci lasciai soltanto un po’ di pelle, schiacciato da un montacarichi, mi andò di lusso, molti traumi e nessuna frattura. Per la riabilitazione, mi consigliarono di andare in bicicletta. Mi feci prestare quella di mio zio, era una Legnano. Ma in casa non erano mica tanto contenti, soprattutto quando la riabiltazione si trasformò in allenamenti. Così uscivo il pomeriggio e la sera, di nascosto, quando gli altri erano fuori casa oppure a cena”.
Fu così che Gialdini, a vent’anni, scoprì una voglia, una forza, anche un fuoco – dentro – che non conosceva, che neppure sospettava: “E così nacque la rivalità con Dino Porrini. Io due anni più di lui, ma lui più esperienza di me. Io più forte di lui in salita, lui più forte di me in pianura e in volata. Io più duro di lui, lui più matto di me. E tutti e due nella stessa squadra, la Bombana di Guidizzolo”. La gente si schierava, si divideva, si infiammava. “Conquistai la prima vittoria nel Bresciano a Soprazocco, per distacco, nel 1972. Ero uno scalatore, e neanche lo sapevo”. Tant’è che avrebbe conquistato altre classiche con arrivo in salita, dalla Morbegno-Valgerosa alla Bologna-Raticosa. “Forse per capirlo sarebbe stato sufficiente che che mi fossi guardato allo specchio: un metro e sessantacinque per sessantatrè”. Lo guardò, lo misurò e lo valutò con attenzione Roberto Ballini, ex professionista, poi tecnico alla Mobilgori: “Mi aveva scoperto al Giro della Valle d’Aosta, dove non c’è un metro di piano, ma tutti o su o giù. Non vinsi neanche una tappa, ma mi piazzai sempre fra i primi. Mi parlò, mi ingaggiò, mi valorizzò. Grazie ai risultati, venni inserito, io lombardo, nella squadra Toscana A che partecipava al Giro dei dilettanti. Era quello del 1975. La prima tappa feci terzo, dietro a Fausto Stiz e a Daniele Tinchella. La seconda, con l’arrivo a Monte Livata, la vinsi staccando tutti. Poi mantenni il primato fino alla fine, secondo Amilcare Sgalbazzi, terzo Franco Conti. Undici maglie da leader su dodici. Ma la maglia non era rosa. Era gialla. Gialla come quella del Tour, non come quella del Giro. Perché dipendeva dall’azienda che sponsorizzava la maglia. Comunque, con quel risultato, cioè grazie a quella maglia, passai al professionismo”.
Gialdini era considerato la grande promessa del ciclismo italiano: nell’albo d’oro del Giro dei dilettanti seguiva Francesco Moser (1971), Giovanni Battaglin (1972) e Gibì Barochelli (1973) e avrebbe preceduto Marco Pantani (1990), Gibo Simoni (1991) e Danilo Di Luca (1998): “Quattro anni da professionista, tre Giri d’Italia, zero vittorie e tanta sfortuna, fra cadute e incidenti, timidezza e trasparenza. Il ventiquattresimo posto nella generale del mio primo Giro, quello del 1976, un gran premio della montagna vinto davanti a Didi Thurau al Giro del Lussemburgo, una Tirreno-Adriatico aiutando Alfio Vandi a vincerla. Ma avrei dovuto essere più autoritario, più intransigente, più egoista. Invece mi piegavo alle leggi del gruppo. E quando in salita, cioè il mio forte, vedevo i velocisti che mi superavano sorridendomi, e forse anche deridendomi, mi stupivo e non capivo. Pensai che il professionismo non fosse il mio mondo. E mollai”.
Prima un laboratorio di maglieria, poi un lavoro a mezza giornata, intanto e infine la bicicletta: “Ricominciai per passione, per piacere, anche per dimostrare a me stesso di non essere quello che finiva in fondo al gruppo o addirittura staccato. Ricominciai fra gli amatori. E qui mi sono preso molte soddisfazioni”. Tra mediofondo e granfondo, campionati regionali e campionati italiani, Gialdini è diventato un punto di riferimento, ma irraggiungibile, come una stella cometa, ancora adesso quando c’è lui gli altri corrono per il secondo posto: “Vado in bici tutti i giorni, estate e inverno. E rispetto ai tempi del professionismo, sono anche calato di peso”. E a chi lo chiama campione, lui si fa ancora più stretto, e anche un po’ rosso, e minimizza: “Semmai un piccolo campione”.
E quelle undici maglie rosa, pardon, gialle? “Le ho ancora, quasi tutte”. Gialdini era il numero 1.
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