Roberto Baggio e “Il Divin Codino”
Com'è il film di Netflix diretto da Letizia Lamartire sul numero 10? Una storia di redenzione
Le immagini dei suoi prodigi sul rettangolo verde riflettono l’essenza dell’esperienza collettiva. Allo stesso tempo però negli anni hanno eretto un muro tra le gesta popolari e il lato più umano, persino intimo, di un fuoriclasse schivo, allergico alle interviste e ai riflettori. Per colmare questo deficit arrivano su Netflix le immagini di “Il Divin Codino”, film prodotto da Fabula Pictures e diretto da Letizia Lamartire per condurre a un ritratto inedito di Roberto Baggio.
Un senso di autoflagellazione quasi esasperato, i tormenti e le paure di un uomo (spesso passato in secondo piano rispetto allo sportivo) vengono impersonificati da Andrea Arcangeli. Per tutti gli altri personaggi risalta la sproporzione tra il calcio e la vita privata. Sul primo fronte il più in vista è un Arrigo Sacchi (Antonio Zavatteri) arroccato sui suoi dogmi anche di fronte al campionissimo. I compagni di squadra rivestono un ruolo più che marginale, addirittura mancano del tutto i capitoli con le tre grandi del calcio italiano - Juventus, Milan e Inter - ammaliate da Baggio in un solo decennio. Sul secondo fronte invece ci sono tutti i tasselli dei trascorsi sconosciuti ai più. Dalla moglie Andreina (Valentina Bellè) a mamma Matilde (Anna Ferruzzo) fino a papà Florindo (Andrea Pennacchi), sconsolato per la finale di Messico 1970 finché il piccolo Roberto, di appena tre anni, non ha fatto irruzione sulla scena: "Te li vinco io i mondiali col Brasile". Quella promessa rimane l’eterna incompiuta, frantumatasi con una gradazione ascendente verso l’errore in finale nel 1994 proprio contro i verdeoro. L’angoscia di quanto è svanito sul più bello è il vero trait d’union tra l’esistenza e le magie con il pallone tra i piedi. Lo stesso Baggio l’ha spiegato in sede di presentazione: “È stato il mio karma. Ogni volta che stavo per raggiungere qualcosa che desideravo, dovevo combattere per ottenerla. Poi con il buddismo ho imparato ad accettare questa cosa e a viverla più serenamente”.
Gli sceneggiatori Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo si sono concentrati su quest’aspetto: “Il punto focale è l’uomo che insegue il destino. Abbiamo mostrato quello che non sapevamo, il lato più oscuro, quello dietro la luna”. Non è un caso che la grande assente sia la Juventus, nemmeno mai nominata nei novanta minuti dietro la cinepresa. Questo priva Roberto Baggio dei suoi trionfi più grandi, evidenzia la dicotomia tra chi è rimasto nel cuore della gente vincendo tutto e chi ce l’ha fatta lo stesso perché essere speciale. Il Pallone d’Oro, l’originale, compare sul set senza che ci sia traccia dei colori bianconeri, pur essendo il risultato di una stagione condita da trenta reti e una Coppa Uefa alzata al cielo con la fascia di capitano al braccio.
Per quello parla il campo, il film invece punta su altro. Mette sullo sfondo l’animo più introflesso, segnato dal rapporto tempestoso con il padre e culminato quasi nell’odio. Poi la redenzione, confermata dallo stesso protagonista: "A un certo punto era diventato come un nemico. Era sempre rigido, severo però mi ha trasmesso la capacità di non arrendermi mai. Spesso ci si accorge dei genitori quando non ci sono più".
Questo è il vero Divin Codino. L'uomo dietro il campione, brano di Diodato e parte della colonna sonora del film: “Più di vent'anni ad aspettare quel rigore. Per poi scoprire che la vita era tutta la partita”.