Giro d'Italia. Il disperato ottimismo di Simon Yates

Giovanni Battistuzzi

L'inglese ha vinto in cima all'Alpe di Mera la diciannovesima tappa. Egan Bernal è arrivato terzo, dietro a João Almeida, ma perdendo solo una trentina di secondi, non abbastanza per dannarsi nell'inseguimento. Domani l'ultimo arrivo in salita

Simon Yates sapeva sin dalla partenza che per provare a conquistare il Giro d'Italia 2021 poteva contare soltanto sulle sue gambe. C'era poco da giocare di fantasia, nulla da affidare alla creatività. Serviva la pratica, l'essenzialità. Uno scatto per andare e la speranza che le gambe degli altri si inceppassero, che quelle della maglia rosa Egan Bernal, fossero ancora legnose come a Sega di Ala.

È un ciclismo di solitudine quello di Simon Yates, una forma di disperato ottimismo. Un'incrollabile speranza che non tutto sia già deciso.

 

Foto LaPresse  

Egan Bernal sapeva sin dalla partenza che per continuare a credere nella conquista del Giro d'Italia poteva contare oltre che sulle sue gambe, pure su quelle di Daniel Felipe Martinez. E a quelle di Jonathan Castroviejo. Almeno nel finale. Perché prima c'erano pure quelle di Filippo Ganna, di Salvatore Puccio e di tutti gli altri. Certamente poi sarebbero servite le sue, ma su quelle non aveva dubbi. Avevano girato bene per due settimane, si erano leggermente impallate in Trentino, ma un ingolfo passeggero.

Yates doveva attaccare e ha attaccato. Prima un po' alla chitichella a sei chilometri e mezzo dall'arrivo, portandosi via uno sparuto gruppo di compagni d'avventura. Poi in maniera più decisa. Un'accelerazione secca quando al traguardo mancavano quattro chilometri e mezzo. Alla sua ruota non è rimasto nessuno. E nessuno si è presentato a infastidirlo sino allo striscione che segnava la sommità dell'Alpe di Mera e la conclusione della diciannovesima tappa del Giro 2021. Sapeva di dover dare tanto ma non tutto. Un avviso, un biglietto da visita. Non si recuperano minuti quando le pendenze si avvicinano al dieci per cento e di strada al traguardo non ce n'è poi molta. E lui sui minuti doveva ragionare: oltre tre alla partenza, tanto era distante la maglia rosa.

Tra l'inglese e quel colore c'è però ancora in mezzo Damiano Caruso e il suo incedere resistente, animato da un ardore cheto e consapevole che spesso a piccoli passi si va più lontano che a mettersi a correre. Il siciliano controlla, si guarda attorno, avanza silenzioso tra gli altrui clamori. Non alza la voce, non cerca la ribalta, costruisce pazientemente il suo proscenio. Ora distanziato di due minuti e mezzo da quello rosa.

Minuti che per Egan Bernal significavano essenzialmente possibilità di controllo, almeno per quanto riguarda energie e distacco. Un richiamo alla pazienza, alla gestione delle risorse: economia ciclistica. La maglia rosa si è affidato ai compagni di squadra, al loro ritmo. Poi ha imposto il suo. Pedalate indigeste per tutti a eccezione di João Almeida. Il portoghese le ha seguite, poi ha provato a dar loro manforte. Infine s'è messo d'impegno per anticiparle. Del domani ad Almeida frega il giusto, il suo Giro è un continuo oggi, quello buono per tentare di vincere una tappa che lenirebbe il suo dispiacere per una corsa rovinata troppo presto, a risalir l'Appennino verso Sestola. La maglia rosa l'ha lasciato fare, non aveva nessuna interesse a fare il contrario.

 

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Domani i chilometri ascensionali saranno parecchi, le altitudini saranno maggiori, le pendenze inferiori. È lì che i secondi possono diventare minuti, è lì che tutto potrebbe cambiare, anche perché altre occasioni non ci saranno. Milano è vicina, ma sarà un gioco contro il tempo dove le rivolte sono consentite, ma le rivoluzioni difficili.