il foglio sportivo
Come è tenue il Divin Codino
Quieto, impervio e a tratti noioso, il film di Netflix su Roberto Baggio non lascia traccia
Tenue, è la parola. “Abbiamo ancora una tenue speranza”, mormora Bruno Pizzul pochi secondi prima che Baggio spari in cielo l’ultimo rigore di Italia-Brasile, l’unico calciato alto su oltre 120 tentativi in carriera. Tenue è il tono di voce mantenuto da Andrea Arcangeli/Roberto Baggio per tutti i novantadue minuti di film, la durata di una partita di calcio negli anni Novanta quando ancora non esistevano i maxi-recuperi. Tenue è la ricostruzione storica che non si pone nemmeno la pretesa di essere completa, saltando da Firenze 1987 a USA 1994 a Brescia 2000 con due mega-ellissi temporali talmente smaccate da mettere subito in chiaro che il calcio, per la regista Letizia Lamartire e i due sceneggiatori Stefano Sardo e Ludovica Rampoldi, è l’ultima cosa che conta. Tenui sono i dialoghi, di scarnezza adeguata a una famiglia della profonda provincia vicentina. Tenue è insomma tutto Il Divin Codino. Tenue, soprattutto, è la tenuta narrativa di un film per certi versi sorprendente, spiazzante rispetto alle aspettative generate per sua natura da un prodotto marchiato Netflix su uno dei calciatori più popolari della storia d’Italia, perché la mente corre subito alla doppia operazione-Totti – sia il documentario di Alex Infascelli, sia la serie tv Sky, quanto di più romano e tottiano possiate immaginare – e si aspetta una cosa simile. E invece no.
Perché Speravo de morì prima è un opera dell’ingegno italico quanto Il Divin Codino – rarefatto, anticlimatico, tutto giocato sulla sottrazione – sembra un manufatto giapponese. Il Giappone, nella figura del maestro Daisaku Ikeda, trascina via il Piccolo Principe Baggio dalla noia e dall’autocommiserazione e il film insiste sul suo apprendistato buddista molto più che su altre “tappe obbligate” del perfetto biopic sportivo, dall’incontro con la moglie Andreina (il film inizia che sono già fidanzati) ai vari momenti cult della sua carriera: il burrascoso passaggio dalla Fiorentina alla Juventus nel 1990, il successivo rigore “rifiutato” a Firenze nel 1991, la vittoria del Pallone d’Oro o le litigate con i vari allenatori, tutti episodi di cui non si fa minima menzione. Il Giappone incombe nei pensieri di Baggio anche alla fine, dal momento che uno dei suoi pochissimi nervi scoperti, l’unica volta che se l’è davvero presa con qualcuno, è la promessa non mantenuta di Trapattoni di portarlo ai Mondiali 2002. Il Giappone come metafora di solitudine, anzi isolamento volontario e vagamente inspiegabile per noi assuefatti al rumore e all’obbligo dell’h24, pena l’emarginazione sociale; dunque, il Giappone punto non solo geografico ma soprattutto spirituale a cui tende Baggio e di riflesso tutto il film, imperniato su dinamiche essenziali, una relazione padre-figlio di complessità elementare, dialoghi e situazioni degne di uno spin-off di Holly e Benji (non è per forza un difetto): a un certo punto lo vediamo tirare pallonate contro il muro della palestra del ritiro americano per sforzare la coscia destra infortunata contro la Bulgaria, aizzato da un Arrigo Sacchi cattivo come il peggior Jeff Turner (i lettori dai 30 anni in su, pubblico d’elezione di questo film, coglieranno al volo la citazione).
Possiamo e forse dobbiamo obiettare che un gigante come Baggio avrebbe meritato un’operazione alla Jordan, ma a quel punto ci sarebbe stato bisogno che il diretto interessato aprisse per la prima volta lo scrigno dei ricordi e dei segreti, operazione contraria al suo personale Bushido, l’antico codice dei samurai. Dalle tante interviste concesse anche un po’ controvoglia nelle ultime settimane, si capisce come a Baggio del calcio avvelenato di oggi non gliene freghi alcunché: dunque è perfettamente coerente che il film su Baggio non parli di calcio, non cerchi in alcun modo di spiegare il segreto del suo talento, illustrarne la leggerezza e facilità di tocco, non mostri mezzo fotogramma di un dribbling, una punizione, un assist geniale, indugiando semmai sui momenti neri – il calvario di legamenti e menischi, la sostituzione con la Norvegia, il maledetto rigore col Brasile – attraverso cui è andata forgiandosi la sua fede quieta e silenziosa come acqua di ruscello. Nulla di spettacolare nel significato occidentale del termine: una produzione americana avrebbe sovrabbondato nella ricerca di conflitti, di buoni e cattivi, di scene madri, di liti furibonde e baci sotto la pioggia, crampi e riscatto, magari si sarebbe inventata la scena metaforica di Baggio che, di ritorno da Pasadena, manca una quaglia col fucile come Robert De Niro nel Cacciatore dopo che è tornato dal Vietnam.
Invece questo Divin Codino risulta impervio, lambito da una serena malinconia come certe opere minori di Ozu o Mizoguchi che passano alle quattro del mattino su Rai3, disorientante per i baggiofili devoti che si aspettavano un bignami delle sue gesta sportive (peraltro impossibile in soli 90 minuti) e invece passano un’ora e mezza in quieta e noiosa compagnia di un ragazzo comune che deve scendere a patti col mistero del proprio talento, circondato da caricature un po’ cringe, come usano dire gli abbonati Netflix di ultima generazione, come se fossero i cognomi storpiati dei primi videogame di calcio d’importazione nipponica: i sosia di Sacchi, Trapattoni, Guardiola, Mazzone-Martufello, Gino Corioni... c’è persino l’imitatore di Pizzul che ripete alla lettera le frasi stentoree del Pizzul originale, così come i finti titoli di giornale o le didascalie in Impact. Tutto è molto fanciullesco e didascalico, anche troppo per non pensare che sia voluto, un ritorno all’ingenuità dei calciatori che abbiamo nel cuore e di cui non è rimasta traccia nel tempo presente, “da quando Baggio non gioca più”. Anche Il Divin Codino è un film che non lascia tracce. L’impressione è che non voglia lasciarle.