romanzi rosa /8
Il vento di Marco Groppo
Al Giro d’Italia del 1982 conquistò tutti, oltre al nono posto assoluto e alla maglia bianca di migliore fra i giovani. L'ex grande promessa del ciclismo italiano ci spiega cosa non è andato nella sua carriera
Era bello. Sulla bici e giù dalla bici. Tirava, inseguiva, volava. Ventuno anni e il vento dentro, addosso, a favore. Al Giro d’Italia del 1982 conquistò tutti, oltre al nono posto assoluto e alla maglia bianca di migliore fra i giovani.
Marco Groppo, e chi non se lo ricorda. Una stella, si diceva, è nata una stella, si scriveva, nato sotto una buona stella, si sosteneva allora. Una meteora, a giudicarlo adesso, risultati alla mano, poco o niente, molto meno di quello che si era immaginato, ipotizzato, fantasticato. Eppure. In salita: aveva il dono della leggerezza. Nel ciclismo: aveva il dono dell’incoscienza. Nella vita: aveva il dono della naturalezza. Bello, lui, e troppo bello quello che lui ci lasciava sperare e sognare.
“I miei genitori erano cuochi. E io, dopo le medie, avrei voluto studiare all’istituto alberghiero. Invece, disegnatore meccanico, Mi trovai male. Mollai. O a scuola o al lavoro: a quel tempo era così. Così i miei genitori mi mandarono a lavorare. Feci di tutto, da un pentolificio alle onoranze funebri, finché riuscii a fare del ciclismo il mio mestiere. Era una passione nata quando avevo 13 anni e ai Giochi della gioventù partecipavo alle campestri e al calcio. Una squadra di ciclismo del mio paese, Gorla Minore, cercava ragazzi da mettere in bicicletta. Io, di ciclismo, non sapevo nulla: una volta avevo visto passare una corsa e mi ero stupito che certi corridori passassero prima e altri dopo e non fossero tutti insieme. Mi consegnarono una bicicletta sportiva, cui avevano tolto i parafanghi e trapiantato un manubrio da corsa, poi mi dissero vai. Andai. E in salita li staccavo tutti”.
“M’innamorai di quella bicicletta, azzurrina, e di quella maglia bianca e verde. M’innamorai di quella squadra, che non aveva sponsor, erano i soci a scucire soldi dalla pensione per farci correre qua e là. M’innamorai di quel pedalare, di quel correre, di quell’aprirsi al mondo. Ero già innamorato del ciclismo quando vinsi la prima volta, era il 1976, si arrivava sul Brinzio, un passo – il più dolce – del Varesotto, campione provinciale, primo per distacco, e da allora in poi le mie vittorie sarebbero state tutte soltanto per distacco. L’ultima corsa da dilettante, la Rho-Macugnaga, il traguardo alla base del Monte Rosa, scattai, rimasi solo, in una galleria entrai in una buca, spaccai la bici, fui ripreso dal gruppo, attaccai ancora, rimasi solo con Fausto Stiz, a un chilometro dall’arrivo gli dissi ‘su quella macchina c’è chi mi ingaggerà il prossimo anno tra i professionisti, ti renderò il piacere’, ma siccome Stiz non faceva una piega, gli dissi ‘guarda, c’è il gruppo che ci sta prendendo’, lui si voltò e io scattai. Fui ripreso a 300 metri dall’arrivo. Risultato: primo Stiz, secondo io. Erminio Dall’Oglio, il patron della Hoonved e lo sponsor della Hoonved-Bottecchia, mi disse ‘mai visto due che si parlano a un chilometro dall’arrivo, che cosa gli dicevi?’, confessai mezza verità, la seconda parte, quella ‘guarda, c’è il gruppo che ci sta prendendo’, lui si mise a ridere e mi rassicurò, ‘sei un corridore’”.
“Il 1981, l’anno del debutto, si rivelò difficile. Io e altri tre corridori fummo bloccati alle visite mediche per una sospetta epatite. Invece erano solo transaminasi alte. Una tira-e-molla logorante. Benedetto Patellaro, siciliano, riuscì a convincere medici e commissioni forse, si scherzava, grazie ad amici forniti di coppole e lupare. Giovanni Bino rinunciò. Io e Vittorio Algeri insistemmo finché una biopsia epatica ci liberò. Comunque, alla fine, corse poche e risultati zero. Stavo per smettere quando nel 1982 fui chiamato da Riccardo Magrini per entrare in una squadra, la Metauro Mobili, costruita da corridori dimenticati o disoccupati intorno allo scalatore belga Lucien Van Impe. Fu un anno felice: un po’ per l’ambiente della squadra, sereno e familiare, un po’ per Roberto Poggiali, più un fratello maggiore che il direttore sportivo, un po’ per le gambe che giravano come si deve. Così arrivarono il nono posto in classifica, e se non avessi dovuto correre da gregario avrei rischiato di fare addirittura terzo, e la maglia bianca, ventisei minuti di vantaggio sul secondo, non uno qualsiasi, ma Laurent Fignon, ma devo dire che Fignon faceva anche lui il gregario, certe tirate pazzesche in salita per il suo capitano, Bernard Hinault”.
“Grazie a quel Giro ricevetti proposte di qui e di là, anche dalla Francia. Cyrille Guimard mi offriva un posto da gregario di Hinault, mi avrebbe fatto fare il Tour de France. Ma allora correre all’estero sembrava così strano, e il centro del mondo del ciclismo era l’Italia, e così rimasi alla Metauro-Mobili. Il problema fu che mi considerarono il capitano, e io avevo solo 22 anni, fisicamente non era ancora maturo, psicologicamente neanche, la responsabilità mi pesava e mi frenava. Poi il Giro d’Italia, dove tutti mi attendevano come protagonista. Andò male, caddi, m’infortunai al ginocchio, tornai a casa, tra riposo e terapie persi la condizione, andai al Tour, e dopo una decina di giorni brillanti mi venne la gastrite, scoppiai e abbandonai. In più, una storia d’amore diventata scandalosa. ‘Tu che parli francese’, mi disse Toni Bailetti, e m’indicò una miss della Irge, maglieria intima da donna sponsor del Giro. Fu subito scintilla, fuoco, amore, amore vero. Tant’è vero che la nostra storia durò 11 anni, ma fin dall’inizio fu osteggiata, ostacolata, denunciata. Lei, Mendi, come una nuova Dama Bianca, e io come quello che giocava, mai giocato, che spendeva tutto in macchine grosse, mai avute, e che faceva la bella vita, invece continuavo a fare quella del corridore. Ma era uno scandalo. Il mondo del ciclismo mi considerava un traditore, perfino i miei genitori mi guardavano storto, un giorno fui convocato da Felice Gimondi – era il mio idolo, tenevo il suo poster sopra il letto – che mi domandò se ci fossi veramente andato a letto”.
“Senza fiducia, senza serenità, senza risultati, nel 1985 e nel 1986 lasciai il ciclismo e tornai a lavorare. Il lavoro mi portò in Svizzera proprio da Stiz. E lì ricominciai ad allenarmi, e poi a correre fra i dilettanti. Alla partenza i corridori mi chiedevano l’autografo, poi mi scattavano in faccia. Lentamente recuperai la condizione, ottenni qualche successo, venni contattato dalla Eurocar di Gianni Savio e dalla Caja Rural di Marino Lejarreta. Scelsi la squadra italiana, ma ormai era tardi, era andata, era bell’e che finita. Adesso però c’è un altro Groppo che corre, mio figlio Riccardo, 18 anni, junior. Non sono stato io a metterlo in sella, è stato lui a lasciare il calcio e a scegliere la bici. È un bel corridorino, forte in salita, con tanta passione. E a scuola va anche bene. Chissà, forse è il Groppo giusto”.
Al Giro d’Italia del 1931 debuttò la maglia rosa come simbolo del primato nella classifica generale. Novant’anni dopo, per celebrarla, raccontiamo brevi storie legate a quei giorni da numeri 1. Qui trovate tutte le altre puntate.