Giro d'Italia. La vittoria di Damiano Caruso è una pacca sulla spalla al ciclismo
In cima all'Alpe di Motta il siciliano conquista la sua prima vittoria al Giro, la terza in carriera. Egan Bernal, secondo, conserva la maglia rosa, che difenderà domani nell'ultima tappa: la cronometro Senago-Milano
Una pacca sulla spalla. Di ringraziamento, di gratitudine, per dire tutto senza dire nulla. Una pacca sulla spalla, quella di Damiano Caruso a Pello Bilbao quando mancavano sei chilometri e mezzo all’arrivo della ventesima tappa del Giro d’Italia 2021.
Lo spagnolo aveva guidato il siciliano giù dal Passo del San Bernardino, aveva tracciato la via buona, quella più veloce, su a risalir il Passo dello Spluga e poi ancora a scendere verso Campodolcino, lì dove la strada ripuntava ala cielo. Ha provato a farlo anche verso l’Alpe di Motta, ce l’ha fatta per qualche centinaio di metri appena, poi si è scansato dalla prima posizione degli avanguardisti. Abbastanza, anzi tanto. Damiano Caruso ha omaggiato tutto questo con una pacca sulla spalla, poi ha fatto da lui. Si è messo a spingere forte le pedivelle, consapevole che era questo l’unica cosa che poteva fare: pedalare il più veloce possibile senza pensare a nient’altro, libero da tutto, a eccezione della presenza di Romain Bardet.
Damiano Caruso alla Gazzetta aveva detto che “lunedì non voglio avere rimpianti”. Ieri aveva perso una trentina di secondi da Yates, non voleva replicare dati i pochi, venti, che gli rimanevano ancora da difendere.
Un rimpianto è un’occasione lasciata scappare via. Henry Miller nel 1975 raccontò di essersi mangiato le mani quando, durante un viaggio in Cile, “bevvi un vino rosato meraviglioso, tra i migliori che avessi mai assaggiato. Avrei voluto portarmi a casa qualche cassa. Tra una cosa e l’altra non ci riuscì. Mi dissi: ‘Poco male, alla prossima occasione le porterò in America. Non ci fu un’altra volta. Pinochet cambiò tutto, soprattutto uccise il vignaiolo”.
Rosa come il vino, rosa come il Giro, come la maglia che Egan Bernal sull’Alpe Motta è riuscito a difendere, nonostante Pello Bilbao, nonostante l’idea di rivolta di Romain Bardet, lo sforzo di Michael Storer. Soprattutto nonostante Damiano Caruso, che lo striscione d’arrivo della penultima tappa l’ha attraversato per primo, dita al cielo, pugni al cielo, baci al cielo. Contento, quasi incredulo. Nessun rimpianto.
Aveva mai vinto Caruso al Giro, aveva vinto poco in generale. Due vittorie, la prima nel 2013 alla Settimana Coppi e Bartali, la seconda poco più di un anno fa al Circuito de Getxo "Memorial Ricardo Otxoa"; in entrambi i casi un ricordo, il legame continuo tra presente e passato nel ciclismo. Non sono le vittorie però spesso a dare la dimensione di un corridore.
Aveva mai vinto Caruso al Giro, l’ha fatto oggi, ventiquattro secondi avanti a Egan Bernal, cinquantuno avanti a Simon Yates, sesto all’arrivo. Secondo posto in classifica generale confermato e rafforzato. L’ha fatto di ostinazione, di forza, di tenacia. Con la leggerezza di chi sa di non aver nulla da dimostrare, soprattutto niente da perdere.
Damiano Caruso ha detto a Stefano Rizzato della Rai che il “70 per cento della mia vittoria è merito di Pello Bilbao”. Il giusto riconoscimento nella giusta occasione. Perché oggi, per come è andata, è stata l’evidenza di come il ciclismo sia sport di squadra. Lo ha dimostrato il Team Dsm che di collettivo, grazie a Michael Storer e Chris Hamilton, ha provato a scombussolare il Giro. Lo ha dimostrato la Bahrain Victorius che ha agevolato l’incedere del siciliano con lo spagnolo. Lo ha dimostrato ancora una volta la Ineos-Grenadiers che ha guidato la difesa della maglia rosa di Egan Bernal con tutti i suoi componenti, da Salvatore Puccio sino a Daniel Felipe Martinez, che non si è limitato a tracciare la via ascensionale al connazionale, ma è riuscito a terminare al terzo posto in cima all’Alpe Motta.
Sa di cosa parla Damiano Caruso. Per anni è stato costruttore di vittorie altrui, rampa di lancio per conquiste ascensionali di compagni di squadra. Ha agevolato l’incedere di Ivan Basso, Richie Porte, Vincenzo Nibali, Mikel Landa. Era partito da Torino come spalla del basco, dopo il ritiro del capitano si è messo in proprio. L’ha fatto al meglio, talmente bene che domani partirà da Senago penultimo, da secondo in classifica. Un minuto e cinquantanove secondi da recuperare a Bernal, un minuto e ventiquattro secondi da difendere dall’ultimo tentativo di recupero di Simon Yates. Contro il tempo, contro gli altri, contro tutto.
Le cronometro sono pratica ascetica, un fare affidamento su se stessi. Sono, soprattutto all’ultimo giorno, un atto di fiducia nelle proprie gambe e la speranza che tutto vada come deve andare, cioè al meglio.
Lo è per tutti, lo è soprattutto per chi si gioca un podio. Damiano Caruso spera di non perdere gradini, sa che difficilmente ne guadagnerà. Quello che ha gli basta, non potrebbe essere altrimenti.