Il giorno più bello di Davide Rebellin

Marco Pastonesi

Era il Giro d'Italia del 1996 quando il corridore veneto vinse a Monte Sirino e conquistò la maglia rosa. Il racconto di quei giorni e la certezza che "lo sport fa stare bene"

Monte Sirino. Quota 1546 metri. Appennino Lucano, Basilicata, provincia di Potenza. D’inverno si scia, d’estate si cammina. Il Giro d’Italia, che lo ha messo al mondo, fa il Monte Sirino a forza di pedali. Gran premio della montagna e arrivo. La prima volta nel 1995: primo, Cubino Gonzalez Laudelino, spagnolo. La salita, quattordici chilometri e mezzo, fu uno spettacolo, un successo di critica e pubblico. La seconda volta, subito, nel 1996.

“Il Giro cominciò in Grecia, ad Atene, cent’anni dopo la prima Olimpiade. Quella era la settima tappa, l’Amantea-Monte Sirino. Nel finale andammo a prendere un paio di fuggitivi. All’ultimo chilometro eravamo in sei. Gli ultimi cento metri spianava un po’. Misi il rapporto. Partii lungo. Superai Gotti, Ugrumov, Piepoli, Faustini e Tonkov. Stavo sui pedali. Ondeggiavo la bici. Stringevo il manubrio. E anche i denti. Spinsi fino all’ultimo metro. Poi alzai il braccio al cielo. La mia prima vittoria al Giro. La mia unica”.

Davide Rebellin aveva ventiquattro anni, quasi venticinque, al quarto anno da professionista aveva vinto due volte, la prima una breve corsa a tappe in Germania, la seconda una tappa al Giro del Trentino. “Quel giorno fu un’emozione gigantesca. Tutto quello che avevo sognato, immaginato, sperato si era finalmente, magicamente, incredibilmente avverato. Dai brividi della prima volta in cui vidi passare una corsa di corridori ai timori, ai pensieri, alle illusioni che accompagnano qualsiasi corridore alla partenza di una qualsiasi corsa, e soprattutto al Giro d’Italia, almeno per noi italiani, la corsa più bella, più importante, più familiare che esista”. Tappa e maglia. “Conquistai la maglia rosa, la indossava un francese, Pascal Hervé, la notte la stesi su una poltrona, non so quanto riuscii a dormire, ancora scosso da quell’emozione gigantesca, mantenni la maglia rosa altre cinque tappe, poi su un’altra salita, ma in Piemonte, a Prato Nevoso, me la prese proprio Tonkov, che avrebbe vinto il Giro. A ripensarci, quello di Monte Sirino fu il giorno più bello”.

Di giorni, tanti giorni belli, anche qualche giorno brutto (squalificato per doping alle Olimpiadi di Pechino 2008, da cui sette anni dopo fu assolto), Rebellin ne ha vissuti più di qualsiasi altro corridore. A quarantanove anni, quasi cinquanta, corre ancora. Nel suo caso: sempre. Oggi, a Laze v Tuhinju, non lontano da Lubiana, partecipa al Gp Slovenia, con la maglia del Work Service Marchiol Vega, una squadra italiana non invitata al Giro d’Italia, in una formazione dove i compagni sconosciuti al grande pubblico – Bobbo, Burchio, Di Benedetto, Zandri e Zecchin – hanno meno della metà dei suoi anni. “Lo scorso 2 maggio – racconta Rebellin – a una corsa, il Circuito del Porto-Trofeo Arvedi - c’erano tre figli di corridori con cui aveva gareggiato: Arroyo, Quaranta e Vinokourov. Prima del pronti-via sono venuti a salutarmi. E spesso, in queste corse minori nel calendario internazionale, succede così: chi mi viene a salutare, chi a stringere la mano, chi a chiedere un autografo o una foto. Per me è un onore, davvero”.

Rebellin è, fra i corridori, stimatissimo: per la longevità, che significa disciplina e rigore, per la modestia, per la disponibilità. “La bicicletta – spiega – è la mia vita. Mi sembra di pedalare da quando sono nato. Sulla bici sono cresciuto, mi sono specchiato, ho sofferto, ma anche gioito, la bici mi ha insegnato a vivere. E così vivo per la bici. Più si va avanti, più bisogna allenarsi. La resistenza è la caratteristica che si perde meno facilmente, l’esplosività quella che si perde più velocemente. Dunque ho elaborato – ormai, e da tempo, mi conosco così bene che mi alleno da solo – una serie di lavori per essere competitivo”. E lo è, Rebellin: quest’anno (“Ma corro troppo poco per la mia natura e le mie esigenze”), in gruppo al Laigueglia, ventunesimo al Gp Industria e Artigianato, decimo in una tappa all’Istrian Spring Trophy, poi alla Coppi e Bartali è rimasto coinvolto in una caduta. “Frattura della branca ileo-pubica destra, cioè del bacino – ricorda -. Riposo, mi è stato ordinato. Otto giorni dopo ho ricominciato a pedalare. Non so stare fermo”.

La bicicletta come passione e professione, terapia e meditazione, insegnamento per sé e gli altri: “I ragazzi mi chiedono, mi seguono, mi ascoltano. Ed è gratificante poter trasmettere le mie esperienze. La ricerca continua. Anche nell’alimentazione, che è alla base della nostra attività, e della nostra vita: noi siamo quello che mangiamo. Da alcuni anni sono vegano. L’eventuale problema delle proteine l’ho risolto grazie a cibi vegetali che ne sono ricchissimi. E poi c’è la testa. La testa ha margini non quantificabili. E per testa intendo voglia e volontà, capacità di sofferenza e carica di motivazione”.

E Monte Sirino? “Pensavo che ne avrei avuti altri, di giorni così, al Giro d’Italia. Poi, invece, per un motivo o per l’altro, perché le corse sono fatte di primi ma anche di secondi e terzi posti, o anche di penultimi e ultimi, rimase l’unico”. Unico e indimenticabile. Rebellin, lo sport fa ringiovanire o invecchiare? “Lo sport fa stare bene”.

 

Al Giro d’Italia del 1931 debuttò la maglia rosa come simbolo del primato nella classifica generale. Novant’anni dopo, per celebrarla, raccontiamo brevi storie legate a quei giorni da numeri 1. Qui trovate tutte le altre puntate.

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