Quando la rivoluzione vinse. 50 anni fa la prima Coppa dei Campioni dell'Ajax
Il 2 giugno 1971 all'Empire Stadium di Wembley i lancieri guidati da Rinus Michels in panchina e da Johan Cruijff in campo batterono il Panathīnaikos alzando il più importante trofeo calcistico europeo
Londra, 2 giugno 1971, ore 19.45. All’Empire Stadium di Wembley due squadre entrano in campo per contendersi la finale della Coppa dei Campioni di calcio. Hanno maglie bellissime. In tenuta verde, di un bel verde scuro, maglia e calzettoni con abbondanti bordi bianchi, interamente verdi i pantaloncini, i greci del Panathīnaikos. In maglia bianca con ampia fascia verticale rossa e colletto stondato sempre bianco, pantaloncini e calzettoni bianchi con bordi rossi gli olandesi dell’Ajax di Amsterdam. È una finale a sorpresa.
L’Ajax dal 1966 domina nel campionato olandese, da quando Rinus Michels, il suo allenatore, e un giovane profeta di un nuovo calcio, Johan Cruijff (diciannove anni e 25 gol in 23 presenze in quella stagione), hanno trasformato una compagine di simpatici bucanieri in una strabiliante, rivoluzionaria macchina da gioco, da gioco totale, il Totaalvoetbal. L’undici in campo si muove a velocità mai vista prima; gran parte dei ruoli sono tra loro intercambiabili e i suoi interpreti possiedono un tale eclettismo da potersi reinventare difensori, centrocampisti e attaccanti a seconda delle circostanze e delle necessità della partita e addirittura il portiere è chiamato a giocare coi piedi fuori dalla propria area di rigore; la squadra alterna momenti di furibonda aggressività – in due, in tre come inferociti mastini vanno addosso al malcapitato avversario col pallone per rubaglielo di piedi: il pressing – a pause di anestestetizzante bonaccia – la melina.
Nonostante questa rivoluzione copernicana del pallone, l’Ajax – quattro titoli nazionali e due coppe d’Olanda in cinque anni, tra il 1966 e il 1970 – in Europa non ha ancora vinto nulla. Il 7 dicembre del 1966, all’Olympisch Stadion di Amsterdam – che non era lo stadio dell’Ajax, lo Stadion De Meer, troppo piccolo per contenere il pubblico accorso a vedere la partita – negli ottavi di finali di Coppa dei Campioni aveva battuto per 5-1 i favoritissimi del Liverpool di Bill Shankly. A dire il vero erano in pochi a essere riusciti a vedere l’impresa, tranne forse i protagonisti stessi: era una notte di nebbia fittissima, che sarebbe passata alla storia come “The Fog Game”, la partita che più di tutte Johann Cruijff amava ricordare, l’epifania (nebbiosa) di un fenomeno nuovo. Quell’anteprima di ’68, fatta di capelli, lunghi, barbe e gioco libero – il football in versione Provos – venne azzerata il turno successivo dai cecoslovacchi del Dukla Praga. Andò peggio la stagione successiva: fuori al primo turno e dopo il tempi supplementari con il Real Madrid. Nel 1969 i lancieri di Michels e Cruijff arrivarono finalmente in finale, ma vennero strapazzati dal Milan di Rocco e Rivera, Prati e Sormani. Nel 1970 il primo trofeo internazionale, la Coppa delle Fiere, sembrava essere a portata di mano ma l’Ajax fu eliminato in semifinale dell’Arsenal.
Nella Coppa dei Campioni 1970-71 l’Ajax arriva alla finale di Wembley non senza qualche brivido. Al primo turno elimina gli albanesi del Tirana, poi agli ottavi si sbarazza degli svizzeri del Basilea e ai quarti degli scozzesi del Celtic. In semifinale contro l’Atletico Madrid ribalta in casa (3-0) la sconfitta dell’andata (0-1). Ma la sorpresa di quella finale non è però l’Ajax. I greci del Panathinaikos non sono mai andati oltre al secondo turno di Coppa dei Campioni. Passano facilmente sedicesimi e ottavi contro i lussemburghesi della Jeunesse d’Esch e i cecoslovacchi dello Slovan Bratislava. Superano nei quarti l’Everton, con due pareggi, 1-1 a Liverpool e 0-0 in casa, e in semifinale compiono l’impresa di rovesciare l’1-4 subito a Belgrado contro la Stella Rossa con un mirabolante 3-0. Sono però una squadra modesta. Vi spiccano il capitano, Mimis Domazos, centrocampista, soprannominato “il Generale”, ancora prima che in Grecia arrivassero i colonnelli; e il bomber, Antonis Antoniadis, che in quel torneo di Coppa sarà il capocannoniere con 10 gol. L’asso i greci ce l’hanno in panchina: è Ferenc Puskas che è proprio in Grecia che raccoglie i migliori successi della sua carriera di allenatore – due campionati, tra il 1969 e il 1972 - , seppure neanche lontanamente paragonabili al palmarès da giocatore.
È però significativo che sia proprio al suo cospetto, sotto gli occhi di uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi, che l’Ajax di Rinus Michels e Johann Cruijff inauguri il suo ciclo di vittorie in Coppa dei Campioni, il primo titolo di una straordinaria tripletta. Significativo perché quell’Ajax, e poi la nazionale olandese che negli anni Settanta ne erediterà l’ossatura, aveva avuto una sua antesignana, come forza di collettivo e originalità tecnico-tattica, proprio nell’Honved e nella nazionale magiara che dominarono la scena nella prima metà degli anni Cinquanta fino alla fatidica data del 1956, quando i “fatti di Ungheria” – l’invasione dei carri armati sovietici in risposta alle richieste di democratizzazione del paese – innescarono la grande diaspora di campioni magiari nelle squadre dell’occidente europeo.
Insomma, l’avete capito. Quella finale di Wembley, esattamente cinquant’anni fa, non ebbe molta storia, aldilà del risultato, 2-0 per gli olandesi – gol di Van Dijk e Haan – , che non mortificò troppo gli ateniesi.
Identica sorte tocco nelle due edizioni successive ad avversari molto più blasonati: l’Inter e la Juventus, battute rispettivamente nelle finali di Rotterdam, il 31 maggio 1972, per 2-0 – doppietta di Cruijff – e di Belgrado, il 30 maggio 1973, per 1-0 – gol di Johnny Rep. I trionfi internazionali dell’Ajax si fermano qui, con la terza vittoria consecutiva in Coppa dei Campioni e con la conquista della Coppa Intercontinentale nel 1972 contro gli argentini dell’Independiente (nel 1971 e nel 1973 gli olandesi si rifiutarono di giocare la finale contro il Nacional e contro l’Independiente, lasciando campo libero, rispettivamente, al Panathinaikos e alla Juventus che cedettero in entrambi i casi alle sudamericane). Nell’estate del 1973 Cruijff, non senza polemiche, lascia Amsterdam per Barcellona e la favola dei lancieri si interrompe, con l’eccezione della Supercoppa europea nel gennaio del 1974, quando si prende la rivincita della finale persa nel 1969, sotterrando di gol un povero Milan ormai in disarmo, con Cesare Maldini in panca e Nereo Rocco come direttore tecnico.
Della squadra che conquistò il primo successo europeo a Wembley, tutti ricordano i grandi nomi, che avrebbero fatto grande l’Olanda del 1974 ai Mondiali di Germania e poi del 1978, in Argentina, in entrambi i casi finalista senza fortuna – proprio come l’Ungheria di Puskas vent’anni prima. Di Cruijff, il profeta del gol, si sa quasi tutto; e così pure del suo “gemello” Johann Neeskens, fenomenale tuttocampista, tutta tecnica, corsa e cattiveria, che contro il Panathinaikos, in osservanza alla leggendaria duttilità dei ruoli, in quella finale gioca da terzino sinistro, in sostituzione di Ruud Krol – che un decennio dopo sarà “re di Napoli” prima di Maradona –, altro fuoriclasse messo ko dalla frattura ad una gamba.
Sull’altra fascia, Wim Suurbier, instancabile stantuffo e simpatico giocherellone della compagnia: memorabili i suoi scherzi ai compagni in coppia con Krol. In difesa gioca anche Barry Hulshoff, barba lunga e calzettoni abbassati senza parastinchi: un brutto incidente nel 1973 gli avrebbe impedito di essere convocato per il Mondiale del 1974. Di fatto, la sua carriera terminò lì.
Gerrie Mühren, centrocampista, è uno dei più tecnici. Non si sa se sia più ricordato per la semifinale del 1973, quando, praticamente, fece fuori da solo il Real Madrid con una partita sontuosa; oppure, come vuole la leggenda, per aver causato, indirettamente, la scelta dell’inconsueto, iconico numero 14 da parte di Cruijff. Il 30 ottobre 1970 Cruijff tornava a giocare dopo un infortunio. Mühren, che lo aveva sostituito nelle precedenti partite, aveva indossato la sua maglia, la numero 9. Quando subentrò dalla panchina Cruijff indossava la 14: fu un rientro fortunato e Johann decise di vestire sempre quella maglia, con quel numero che gli ricordava l’orario della sua nascita, il civico dove viveva in Scholeksterlaan, la targa della sua auto (1414TS) e il numero di telefono di quando abitava a Vinkeven, 14914.
Il gol dell’1-0 della finale di Wembley dopo soli 5 minuti lo segna di testa Dick Van Dijk, anticipando il difensore e infilando la palla nell’angolino lontano. Il cross, perfetto, da sinistra era di Piet Keizer. Van Dijk nel 1969, quando giocava nel Twente e vinse con 30 la classifica cannonieri del campionato olandese, segnò una tripletta all’Ajax che lo comprò per la stagione seguente. Doveva però giocarsi il posto in attacco con fenomeni come Cruijff, Keizer e Sjaak Swart, una specie di monumento per i lancieri, e dal 1972 con l’emergente Johnny Rep. Nondimeno seppe farsi valere nelle tre stagioni in biancorosso (84 presenze e 54 gol). Van Dijk smise presto di giocare, a 29 anni, e quando morì nel 1997, a soli 51 anni, a causa di un’infezione cardiologica, l’Ajax lo celebrò con una partita commemorativa in cui scesero in campo tutti i compagni di quella finale del 1971.
In porta gioca Heinz Stuy, soprannominato dai tifosi Heinz Kroket per la sua presa non proprio ferrea: spesso il pallone gli sfuggiva di mano come quando ci si rimpalla una crocchetta di patate bollente. Anche nella finale contro il Panathinaikos si esibì in un’uscita a presa incerta, ma non ci furono conseguenze. Un altro mostro sacro di quell’Ajax è Piet Keizer, dal 1960 al 1975 sempre con la maglia dei Lancieri (365 partite e 146 gol). Ala sinistra, si scambiava spesso di ruolo con Cruijff e insieme rendevano l’attacco dell’Ajax praticamente devastante per qualsiasi difesa. Tuttavia quando all’inizio della stagione 1973 la squadra, con la consuetudine assembleare, elegge a capitano proprio Keizer, Cruijff decide di accettare l’offerta del Barcellona e lascia l’Ajax.
Ma Mister Ajax per tutti è Jesaia Swart, detto Sjaak. È lui a detenere il record di presenze con la maglia dei lancieri: 603 incontri ufficiali disputati tra il 1956 e il 1973. Figlio di un pescatore ebreo, si salvò dalla deportazione durante gli anni dell’occupazione nazista dell’Olanda. Si è ritirato dopo la finale del 1973, alla quale ha assistito dalla panchina.
Alla finale di Wembley prendono parte, entrando nel secondo tempo, anche Arie Haan, che mette a segno, su assist di Cruijff, il gol del 2-0 con un tiro da dentro l’area deviato da un difensore greco – Haan, sette anni dopo, avrebbe infilato Dino Zoff con un missile terra-aria che impedì agli azzurri di Bearzot di contendere la finale ai padroni di casa nei Mondiali argentini del 1978 – e il tedesco Horst Blankenburg.
Proprio Blankenburg, fortissimo libero chiuso in patria da Beckenbauer, prende il posto di titolare nelle due seguenti finali a Velibor Vasovic, jugoslavo, che è forse il personaggio più letterario di quell’Ajax per la prima volta campione d’Europa. Vasovic era l’unico giocatore ad avere giocato due finali di Coppa dei Campioni, segnando in un gol ma perdendole entrambe: era capitato quando giocava nel 1966 Partizan e perse la finale con il Real Madrid per 2-1 dopo aver portato in vantaggio la propria squadra; e poi ancora, con l’Ajax, nella finale persa contro il Milan, in cui Vasovic, detto Vasco, mise a segno il gol del 1-4.
Il 2 giugno 1971 Vasco non segna, ma vince la sua Coppa. Vasco Vasovic è davvero una figura letteraria perché è il protagonista di un racconto di Jim Shepard, americano, uno dei più grandi narratori di short stories. Nella raccolta Non c’è ritorno (66thand2nd, 2012), Shepard in L’Ajax non difende mai fa descrivere in prima persona a Vasovic la sua esperienza nella squadra di Michels e Cruijff. Un testo che, pure nella sua forma di fiction, è forse il miglior saggio di storia del calcio che si sia mai scritto intorno alla rivoluzione Ajax. Vi basti questa frase per farvi venire la voglia di andare a leggerlo, se ancora non l’avete fatto:
"Sotto la guida di Cruijff, costruivamo castelli in aria, mentre lui appariva sempre nel punto esatto dove c’era più bisogno, ogni volta a indicare, indicare e indicare: tu vai là, tu rimani qui. Sarebbe stato felice di giocare in un campo lungo due chilometri, senza porte, nient’altro che stupende onde di movimenti che facevano avanti e indietro".