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Il Foglio sportivo

Finale scudetto da psicoanalisi

Umberto Zapelloni

Olimpia-Virtus e le storie incrociate di Messina e Djordjevic

Se Olimpia Milano-Virtus Bologna non fosse la finale per assegnare il 99esimo scudetto del basket italiano, potrebbe essere una seduta di psicoanalisi. Una di quelle in cui vi fanno sedere sul lettino a rivivere il vostro passato. Vale per Ettore Messina come per Sasha Djordjevic che oggi sono i condottieri di Olimpia e Virtus, ma l’altro ieri avevano già scritto pagine per nulla banali a città invertite. I loro sono ricordi importanti, luminosi, rappresentano l’inizio di un viaggio che non è ancora finito, ma in qualche tappa è già stato memorabile. Per Ettore Messina, Bologna è antipasto, primo, secondo e dolce tutto insieme. Ha cominciato a stappare champagne da vice con lo scudetto della stella e poi ne ha vinti altri tre da capo allenatore. Qui ha imparato ad allenare e a vincere. Sasha Djordjevic a Milano si è seduto in panchina quando non aveva neppure il patentino. Era un grande ex giocatore e la società aveva creduto in lui per sostituire Lino Lardo. Ha cominciato così, arrivando all’argento olimpico, mondiale ed europeo sulla panchina della Serbia. Milano, dove continua a tenere una bella casa in centro, ora abitata dalle figlie, è un ritorno alle origini. Esattamente come Bologna per Messina. Una seduta dallo psicoanalista senza averne bisogno, perché tutte e due su quel passato hanno costruito storie di successo.

Messina ha conquistato quattro scudetti in quattro finali disputate, Djordjevic ha vinto la sua centesima da capo allenatore proprio l’altro giorno.
Milano-Bologna è la finale più attesa e desiderata, quella che mette in vetrina 43 scudetti (28 per l’Olimpia, 15 per la Virtus): è come se nel calcio si affrontassero Juventus e Inter, con gli stessi dispetti e le stesse invidie. Nessuno ha vinto tanto in Italia, eppure Milano e Bologna (104-73 per Milano il bilancio delle sfide) sono arrivate a giocarsi il titolo in finale solo due volte. L’ultima volta era stata 37 anni fa, nel 1984, quando Bologna conquistò la stella del decimo scudetto: in campo c’erano due simboli come Dino Meneghin e Renato Villata e in panchina due miti come Dan Peterson e Alberto Bucci, il dottor Stranamore del basket bolognese, un uomo dalle mille curiosità e dalla grande vivacità intellettuale che purtroppo se ne è andato prima di poter rivedere la sua Virtus lassù.  Meneghin visse la bella di quella sfida da squalificato, soffrendo come un cane in giacca e cravatta all’imbocco dello spogliatoio del palazzone di San Siro non ancora crollato sotto la nevicata del febbraio 1985. Milano non ha ancora ricostruito un suo palazzo dello sport, la Virtus dopo aver toccato vette straordinarie anche in Europa ed esser sprofondata al piano di sotto ha ricostruito una squadra che potrebbe anche diventare squadrone.

In fin dei conti Milano e Bologna, Olimpia e Virtus, Armani e Segafredo basano il loro successo su un denominatore comune: la passione infinita dei loro proprietari. Il re della moda contro il re del caffè. Giorgio Armani contro Massimo Zanetti.  Uno ha amato Shevchenko, l’altro ha amato Ayrton Senna. Sanno trattare con i fuoriclasse, li sanno riconoscere prima degli altri. Zanetti ha abbinato il suo logo Segafredo a un giovane brasiliano di nome Ayrton quando il mondo doveva ancora scoprirlo. Lo ha accompagnato per tutta la carriera. Uno veste gli azzurri che vanno all’Olimpiade, quelli di Mancini e pure la nazionale Rossa, la Ferrari, l’altro veste la squadra di Nibali che sognava il Giro e presto ci riproverà al Tour. Lo sport non è il loro mestiere, ma la loro passione. Da vivere a bordo campo dando il cinque ai loro eroi sia che abbiano vinto o che abbiano perso. “Sono un appassionato di sport, il mondo del lavoro ti dà e tu devi restituire qualcosa, non solo mettere via i soldi”, ha raccontato Zanetti. È una filosofia che Armani segue da sempre ridistribuendo le ricchezze che accumula con il suo lavoro tra sport e arte, tra amore e passione. Mettere a confronto Armani e Zanetti sembra una cosa senza senso, ma sotto sotto sono uniti dalla passione per quello che fanno e dalla voglia che hanno di fare qualcosa per gli altri, come la fondazione di Zanetti per i bambini meno fortunati, un’idea ereditata proprio da Senna. Armani oggi è probabilmente l’italiano più conosciuto al mondo, un simbolo di classe ed eleganza, un uomo che tutto il mondo ci invidia per quello che riesce a creare con il suo genio. Massimo Zanetti però è un uomo che con il suo lavoro ha creato un piccolo impero e nel suo settore è un vero numero uno. Lo sport li mette uno di fonte all’altro, divisi da uno scudetto che tutti e due vogliono per sublimare una stagione che comunque andrà sarà stata un successo. Milano ha vinto il primo round in super coppa a settembre e ha fatto sue le due sfide in campionato. Poi ha rivinto in coppa Italia dove la Virtus è inciampata ancora prima di affrontarla. Un incidente di percorso che ha portato all’esonero e alla riassunzione di Djordjevic in poco più di 24 ore. Ma, come dice Messina, questa “è la finale più dura”. Per nulla scontata.

Gli uomini simbolo della sfida sono due  che usano il cervello almeno quanto le mani. Due veri signori del basket europeo come Sergio Rodríguez e Miloš Teodosić. Loro mettono i palloni dove a voi non verrebbe mai in mente. Disegnano traiettorie che potrebbero diventare opere d’arte. Hanno vinto in Europa, dove Milos è stato padrone di Mosca ancora prima di Sergio, hanno dipinto in Nba ma senza lasciare davvero un segno indelebile. Il Chacho ha un albo d’oro più scintillante, una carriera americana più lunga e meno tormentata, ma tutti e due trasmettono un senso di leadership e carisma unici. Un vecchio esperto racconta: se Messina non mette Moraschini a morderlo sul collo, Teodosić rischia di far fuori l’Olimpia da solo. Se Rodriguez è venuto ad accendere la luce nel nostro campionato, quello che dovremmo chiamare LBA, lo si deve solo a Messina. Se Teodosić è arrivato a Bologna lo si deve solo a Djordjevic. Sono il braccio armato dei loro allenatori. Anche se poi a suonare per loro deve essere tutta l’orchestra. Milano e Bologna sono arrivate fin qui senza stecche: un doppio 3-0 nei primi turni dei playoff che ha permesso di scrivere un calendario più soft per questa finale su sette partite. Sono davvero il meglio che può offrire il nostro basket. Sperando che anche l’Eurolega se ne accorga e apra le porte anche alle V Nere. Così avremo anche un derby d’Europa.