Il Foglio sportivo - il ritratto di Bonanza
L'estetica del Mancio
Come ct della Nazionale Roberto Mancini ha posto l’estetica come principio filosofico assoluto
Roberto Mancini ama il bello, questo è sicuro. Si veste di bello, ha giocato in modo bello e da allenatore selezionato quasi sempre calciatori pieni di bellezza. Come ct della Nazionale ha posto l’estetica come principio filosofico assoluto. Da questa scelta è ripartito il nostro calcio, di cui la Nazionale è da sempre l’emblematica espressione. Forse è presto per dirlo, visto che la prova più importante arriverà tra pochi giorni con l’inizio degli Europei, ma la sensazione è quella che sia stata imboccata la strada giusta. Mancini ha lavorato come un artista, privilegiando il tocco, la maniera, con eleganza e un fare morbido, tipico di quegli uomini a cui non interessa il consenso degli altri ma di se stesso, alla ricerca di una sorta di pace interiore. Chi ama il bello ne subisce il fascino indisciplinato e senza regole, coltivando dentro un fuoco, a volte anche un violento temporale, in grado di bruciare o spazzare via qualsiasi cianfrusaglia del dubbio. Nel calcio però non c’è estetica senza risultato, checché ne dica Arrigo Sacchi, che sarebbe passato come un abbaglio se non avesse vinto. Per questo parliamo di uno sport difficile, non per tutti, anche se ognuno ne parla come se lo conoscesse meglio delle sue tasche. Mancini fin da subito ha capito che seguendo lo schema della forza, dell’italica difesa e contropiede, non avrebbe spento il fuoco che gli brucia dentro e insieme portato gli azzurri agli Europei e ad altri possibili successi. Così ha preso decisioni in solitudine, perfino contro una logica apparente. Come quella di convocare parecchi mesi fa, un ragazzo, Nicolò Zaniolo, di cui nessuno sapeva molto, visto che ancora non giocava con i grandi. Ma di Zaniolo aveva intuito la diversità, l’estetica superiore, che è anche fatta di forza e di fisico oltre che di tecnica. E questo a prescindere dall’esperienza che il romanista infatti non aveva. Non era il facile che interessava al Mancio, ma l’idea di accarezzare l’impossibile, anche a costo di stravolgere certe regole ormai consolidate. Un po’ come faceva da calciatore, genio del pallone, in cerca di soluzioni magiche senza un perché. Su questa strada della bellezza e dell’imponderabile, ha scelto di far giocare la sua Nazionale in palleggio, con un centrocampo pieno di artisti. Gli mancava, guardando la sua squadra, un giocatore ulteriore, quella ragione in più per cedere al fascino intrigante dell’inedito. Ha trovato questa ragione in Giacomo Raspadori, un piccolo centravanti che ha qualcosa di Paolo Rossi per la rapidità e la faccia da ragazzo pulito. Lo ha messo nella lista tardi, nel pieno della notte, sfidando lo scetticismo circostante, convinto sia la spina che renderà più bella la sua rosa.
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