ANSA/ANGELO CARCONI

Euro 2020

Attento Mancini, da ct più amato a più spernacchiato è un attimo

Roberto Perrone

Non fa nulla per piacere, eppure ha messo d'accordo tutti con i risultati. Per fortuna è il primo a rendersi conto che il momento più delicato della sua avventura in Nazionale arriva ora

Il problema di Roberto Mancini è l’atterraggio. Comincia la discesa oggi, a Roma, nell’esordio dell’Europeo con la Turchia, dopo 27 partite senza sconfitte. Queste, per la statistica, sono state solo due in 32 gare, mentre 23 vittorie e 7 pareggi completano il percorso manciniano. Un ct tra le nuvole, quasi in paradiso. Appunto, come cantava uno dei nostri filosofi di riferimento: “Un viaggio ha senso solo senza ritorno se non in volo”. Però ora si deve scendere e per fortuna il primo a rendersi conto che, di tutto il viaggio, questo è il momento più pericoloso è proprio lui. Mancini ha quella faccia un po’ così, di chi non è stato mai completamente entusiasta (di sé e del prossimo), neanche quando con Gianluca Vialli era il proconsole vincente della Genova doriana e poteva tutto, anche interrompere l’allenamento per scambiare due chiacchiere con un amico di passaggio. Per fortuna, più dei suoi adulatori (alcuni perfino imbarazzanti, carta canta), Robertino ha un rapporto pratico con la realtà, forse perché l’ha sempre attraversata in equilibrio tra slanci e cadute, convinto che nulla sia eterno, a cominciare dal carro del vincitore pronto a svuotarsi più in fretta di come s’è riempito.

 

Roberto Mancini è il ct più amato che si sia avvicinato a un Europeo o a un Mondiale. Più di Giuan Trapattoni che col suo gatto nel sacco non piaceva a tutti, addirittura più del colto Cesare Prandelli che ai Mondiali del 2014 fece le convocazioni più “accontentanti” della storia e portò la coppia Cassano-Balotelli in Brasile sicuro che fossero fantasisti. Lo erano, ma in un altro senso. Eppure il Mancio non ha fatto nulla per piacere. Non è antipatico, tutt’altro, ma è sempre stato spigoloso e da allenatore è diventato precisino, più di quanto fosse da giocatore. Non lascia nulla al caso, neanche i rapporti umani, non gli piace sedersi nelle brigate dei buontemponi, e, soprattutto, sa con chi ha a che fare.

 

Quell’espressione un po’ così ce l’aveva già da ragazzo. Lo incrociai la prima volta in una giornata uggiosa del 1986 nell’atrio della vecchia sede della Lega, in viale Filippetti a Milano. Stava lì, appoggiato al muro, l’aria non smarrita ma afflitta. Era venuto a difendersi alla Disciplinare perché si era beccato una squalifica dura per uno dei suoi non rari scontri con gli arbitri. Instaurammo un rapporto, a me commuoveva la sua umanità ricca e timida, a lui che fossi l’unico giornalista, oltretutto genoano, con cui poteva scambiare due parole senza vedersele pubblicate. Il paradosso è che, fino agli anni Novanta, non ha goduto di buona stampa (genovesi doriani a parte). Il punto più basso lo toccò tra il 1987 e il 1988. In una fresca sera svedese di giugno, gara del girone di qualificazione all’Europeo 1988, sbagliò un rigore al Rasunda Stadion di Stoccolma e l’Italia fu sconfitta dalla Svezia per 1-0. In Italia, qualche mese più tardi, il sodale Vialli rimise le cose a posto con una doppietta. A Vicini piaceva anche se, come tutti i suoi allenatori, non ne capiva il ruolo. A testimonianza del rapporto difficile con la stampa (allora si poteva dire così), si può rivedere l’esultanza polemica dopo il gol alla Germania, esordio a Euro ’88. Mancini corre, il pugno alzato, verso la tribuna lanciando dardi verbali.

 

Dopo il 1990, comunque, solo brodo di giuggiole. Come adesso. Questo è un paese strano, se sei giovane ti tirano le pietre; come invecchi, diventi un mito. Mancini divenne l’idolo dei giornalisti. Ci siamo persi di vista, ma ogni volta che ci incontriamo ci salutiamo sempre con affetto, memori di quelle cene alla Ruota di Nervi, che erano solo cene.

 

Proprio in quel periodo, il Mancio ha avuto i suoi anni migliori da calciatore, con la Sampdoria. Ha rivinto con la Lazio nel girone di ritorno della carriera, ma senza lo stesso pathos. Se come giocatore faceva fatica a trovare una collocazione sul campo, da allenatore non ha avuto problemi, traslocando in panchina senza soluzione di continuità (con deroga). Non è mai più stato messo in discussione, almeno dai media unificati. Gli è andata peggio con i presidenti: Massimo Moratti lo mollò per lo Specialone. Ha preso l’Italia nel ground zero di Ventura e l’ha riportata a entusiasmare se non le folle, che in questo inizio estate preferiscono l’aperitivo assembrato al calcio distanziato, per lo meno i media e tutti coloro che, in attesa delle masse, seguono il pallone. Solo che, come diceva Nils Liedholm, “l’allenatore è un mestiere bellissimo, peccato che si debba giocare” (a ogni ora per non sovraccaricare l’app di Dazn). Già, adesso Mancini deve giocare sul serio (arrivare alla fase finale dell’Europeo o del Mondiale è il minimo, ragazzi) e meno male che lui è quel ragazzo là, che fissa il mondo afflitto anche quando gli fanno i complimenti. Il ct più amato dell’ultimo cinquantennio sa che l’amore è eterno fino alla prima sconfitta. Ecco perché è una garanzia: più che non credere alle favole, non crede a quelli che le scrivono.

 

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