Facce da Euro 2020
Dani Olmo, l'inconsueto
L'attaccante della Spagna ha sempre messo la sua crescita come calciatore e come persona al primo posto. Per questo lasciò il Barcellona per la Dinamo Zagabria. E in Croazia ha imparato che il calcio bello deve essere anche pratico. Una qualità che piace a Luis Enrique
Nel gennaio del 2020 bastarono due allenamenti a Ralf Rangnick, all'epoca responsabile dello sport e dello sviluppo calcistico per la Red Bull (la società proprietaria del RasenBallsport Lipsia) per inquadrare il neoarrivato. Poche parole, al solito: “Ha talento, ma questo già lo sapete. Più del talento conta la testa però nel calcio. La sua è lineare”. A chi gli chiese spiegazioni, rispose: “È pragmatico, sa quello che vuole, fa funzionare i neuroni sia in campo che fuori. Segue la linea che ha tracciato. Ed è una linea retta, se qualcosa si frappone tra lui e il suo obbiettivo lo abbatte”.
La sua linea retta Dani Olmo l’ha iniziata a tracciare nel 2014, a sedici anni, ben prima del suo arrivo al Lipsia. E l'ha disegnata fregandosene se poteva sembrare sghemba, contorta, assurda. Era conscio che sarebbe stata la più adatta a lui.
“Se una scelta sembra un passo indietro, non è detto che lo sia davvero. E non è detto che camminare sempre in avanti sia la cosa migliore, il calcio è anche saper indietreggiare quando serve”. Aveva lasciato da pochi mesi il Barcellona per trasferirsi alla Dinamo Zagabria quando Dani Olmo disse questo al quotidiano croato Večernji list.
In molti si chiesero allora che ci facesse un giocatore che aveva già debuttato con la Spagna under 16, considerato tra i migliori delle giovanili blaugrana, in Croazia. Qualcosa che non andava c’era sicuramente. Aveva un caratteraccio? Aveva problemi fisici? Era un folle? Nulla di tutto questo: “Sono qui perché mi è stato detto che avrei giocato. E a sedici anni si ha bisogno di giocare. La Dinamo è l'opzione migliore per il mio sviluppo calcistico. Qui hanno giocato giocatori come Modric, Halilovic, Mandzukic, Burke o Kovacic e ora sono in grandi club come Madrid, Barça o Atlético de Madrid. Qui posso migliorarmi in forza e resistenza. Ho scelto un campionato duro nel quale non si va tanto per il sottile, o quantomeno questo mi hanno riferito”, disse.
Ci mise sette mesi a convincere l’allenatore della prima squadra, Zoran Mamić, a dargli una possibilità. Il tecnico fu abbagliato dal suo talento, ma lo incoraggiò a prendersi il suo tempo, a migliorare dribbling e tiro tra i coetanei. Non voleva e non poteva sbagliare con lui, glielo aveva chiesto la società. “Devi avere pazienza, vedrai che diventerai un gran giocatore”. Dani Olmo ritornò nella seconda squadra del club, senza discutere. Aveva lasciato il Barcellona perché aveva intuito che dopo la generazione di Iniesta e Messi i blaugrana avevano smesso di credere davvero nei giovani. E lui voleva diventare un calciatore vero, non voleva correre il rischio di perdere il piacere di giocare tra prestiti e panchine. “C’è bisogno di stabilità nel calcio. A girare come una trottola si finisce per cadere”, disse all’amico e compagno di giovanili all’Espanyol e al Barça, Marc Cucurella.
Due anni e mezzo dopo fu promosso in prima squadra, questa volta definitivamente.
Dani Olmo ha sempre messo la sua crescita come calciatore e come persona al primo posto. Del resto non si è interessato mai davvero. Il suo obbiettivo d’altra parte era “diventare il miglior giocatore possibile, non il più forte, so benissimo di non avere il talento dei fuoriclasse”. E per farlo ha saputo aspettare. Per lui il tutto e subito è sempre stata “una scemenza”, perché “per fare le cose per bene serve per prima cosa imparare a farle”.
Nelle stagioni alla Dinamo Zagabria lo spagnolo ha imparato due cose: che il dribbling è importante solo se è funzionale; che di dribbling è meglio farne uno in meno che uno in più. Il perché è semplice: meglio rischiare di prendere un calcione in meno che uno in più. Insomma, che il calcio bello deve essere anche pratico.
È questo che Luis Enrique, il ct della Nazionale spagnola, apprezza di Dani Olmo, la sua capacità di preferire l’essenziale al superfluo, di preferire la praticità all’ampollosità. Da quando è ritornato a sedersi sulla panchina della Spagna, il 19 novembre del 2019, il tecnico lo ha sempre convocato, lo ha quasi sempre messo in campo, sempre quando la partita contava. Trequartista, esterno d’attacco a destra o a sinistra, prima punta, insomma ovunque servisse. È accaduto anche a Euro 2020, capiterà ancora.