Il Foglio sportivo
Migliozzi in paradiso
Il nuovo numero uno del golf italiano si racconta prima dell’US Open, dove tutto può succedere
La sabbia, le onde, le rocce e di tanto in tanto quei pini che sembrano degli enormi bonsai, si muovono in diagonale tra i calanchi a picco sull’oceano e son lì da sempre, prendono il nome da John Torrey il botanico americano che per primo li catalogò nel 1848. Sono quasi in estinzione, a San Diego piove poco e non lo diresti mai, le strisce di prato tagliato che segnano la costa e attirano golfisti da tutto il mondo sono verdissime e sembrano così facili da giocare e invece è proprio il contrario, se si alza il vento centrarle è impossibile e Torrey Pines si trasforma in uno dei campi più difficili al mondo. Molto dipenderà da Rich McIntosh, il greenkeeper del momento, dal suo staff di giardinieri e dai trecento volontari che da giorni lavorano sul rough, è un campo pubblico e per loro è una questione di orgoglio, sanno bene che la storia di questa gara sta tutta nella qualità dell’erba, una combinazione di kikuyu e ryegrass che dovrà essere più folta che mai, l’ultimo taglio all’alba di giovedì sarà a sei pollici e il fairway sarà strettissimo, se lo manchi la pallina scompare e quasi sempre è un colpo che se ne va.
Tanti US Open si sono decisi così, un drive sbagliato può anche passare ma al secondo sei già a tre colpi dalla vetta e al terzo la vittoria te la sogni. Il torneo può diventare in un incubo e i giocatori lo sanno. “Studio da giorni la mappa del campo col mio caddie”, serve la giusta strategia, dove rischiare il driver o provare intanto a restare in fairway, sono le scelte che dovrà fare Guido Migliozzi, vicentino, ventiquattro anni, uno dei tre italiani in gara e al momento quello più in forma, due vittorie sfiorate in un mese, l’ultima in Danimarca con un gran 63 finale, “sapevo di dover fare molti birdie”, un gioco corto perfetto, una calma micidiale e il sorriso sempre pronto, ancor più in queste ore, “perché giocare qui è come essere in paradiso”, e Torrey Pines sarà il primo major della sua vita. “Ho buone sensazioni”, dice, tanto esercizio a Dubai dove si allena da qualche mese con Renato Paratore, genio e sregolatezza del golf italiano, sono inseparabili e questo sodalizio fa bene a entrambi. “Abbiamo trovato il posto giusto, bel tempo tutto l’anno, condizioni costanti e un’erba ideale anche nel driving range” e tante palline da tirare tutti i giorni, cinquecento o anche più, “sono perfette poi nel pomeriggio ci sfidiamo in campo”, un modo per tenere sempre alta la concentrazione, “così quando siamo in gara sembra tutto normale”. Per giocarsela come tutti, alla pari con gli altri e per provare a sbancare.
Non esiste un torneo più imprevedibile degli US Open, ci può arrivare chiunque, anche uno sconosciuto, quest’anno alle qualifiche si sono iscritti 8.683 giocatori, hanno gareggiato per mesi in lungo e in largo per gli Stati Uniti e una manciata tra loro è in arrivo a Torrey Pines, sfideranno i più forti e la sorpresa può sempre accadere, come il trionfo di Lucas Glover a Bethpage State Park o come quando Horace Rawlins vinse l’edizione inaugurale a Newport, il club in cui insegnava da qualche mese, superando una dozzina di grandi campioni del suo tempo. Quest’anno non ci sarà Tiger Woods, in recupero dopo il noto incidente di febbraio, un vero peccato – “è il mio idolo e sogno da sempre di giocare con lui” – nessuno quanto Tiger ha spinto Guido Migliozzi a scegliere il golf. Era nato da due mesi quando Woods nel 1997 vinse il primo Masters, ne aveva undici quando si prese il suo ultimo US Open proprio a Torrey Pines, un playoff mozzafiato contro Rocco Mediate, un duello interminabile, questo è l’unico slam in cui lo spareggio si gioca il lunedì mattina e su diciotto buche e quel giorno ce ne vollero diciannove per scegliere a chi assegnare il trofeo d’argento e la medaglia d’oro. Quest’anno la lotta sarà molto agguerrita, ci saranno i migliori americani, Justin Thomas, Jordan Spieth, Brooks Koepka, Dustin Johnson e pure Patrick Cantlay che ha giusto vinto il Memorial e poi Phil Mickelson, sempre più evergreen dopo il clamoroso successo al PGA Championship e ovviamente il campione in carica Bryson DeChambeau, The Scientist, l’uomo che ha reinventato il grip e il disegno dei suoi bastoni, che si è chiuso per mesi in palestra e ha guadagnato muscoli e cinquanta metri sul drive, fu lui a trionfare nella scorsa edizione, molti diedero il merito alla sua lunghezza dal tee ma la svolta, come sempre accade, fu la grande precisione.
Guido lo sa bene, il suo stato di forma sta tutto in una statistica che pochi osservano, è quarto in Europa nei greens in regulation, arriva quasi sempre in bandiera col numero canonico dei colpi, “una regolarità che dovrò cercare di mantenere” e poi c’è tutto il resto, il pubblico, la tensione, i commenti, le cineprese, i profumi e quel mare che brontola la solita storia lì sotto e l’enorme tabellone coi numeri della leaderboard che cambiano in continuazione e allora la differenza la farà il gioco corto, come insegna Tom Watson che di tiri vincenti ne ha giocati migliaia ma nessuno mai come quel chip imbucato a Pebble Beach nel 1982, il colpo impossibile, dal rough della 17, in discesa. L’unico modo per fermare la pallina era centrare la bandiera e Watson la prese al millimetro e sconfisse Jack Nicklaus in una delle sfide più memorabili della storia del golf. Perché non potrebbe riuscirci anche Guido? Il ragazzo ha carattere, viene da Camisano Vicentino, gente seria, abituata a lavorare, il mercato ogni domenica e in chiesa una bella pala del Tiepolo, L’apoteosi di San Gaetano Thiene che vola verso il paradiso, è sollevato da un nuvolone scuro però attorno è tutto rosa e l’aria non è certo temporalesca. I colori sono quelli di villa Valmarana, siamo a due passi dal Brenta, è una terra che sorprende, come i testi del grande Nitro, il rapper di Ho fatto bene che Guido tiene sempre in cuffia, “era il mio vicino di casa, la sua musica mi da la cadenza giusta”, quando gli mancano la casa, la famiglia e soprattutto le cose buone, “soppressa, baccalà, polenta e osèi” e le gite con gli amici a Bassano e un bicchiere di grappa in compagnia, da veneto non puoi proprio farne a meno e infatti “il mezzo e mezzo a volte me lo faccio anche in trasferta”.
Disteso e fiducioso ma sempre con una punta di goliardia, forse per questo Guido è stato scelto da Niall Horan, già cantante dei One Direction e ora manager di golfisti emergenti, irlandese come alcuni tra i campioni più esaltanti degli ultimi anni tipo Shane Lowry, “che sta giocando davvero benissimo”, o Rory McIlroy, “il vero fuoriclasse” che sbaragliò la concorrenza nel 2011 a Pebble Beach, o Pádraig Harrington, “che ha vinto tre major incredibili”. Sarà lui quest’anno il capitano di Ryder Cup e Migliozzi è decimo in classifica e potrebbe anche qualificarsi per giocare in Wisconsin a settembre nella grande sfida tra Europa e Stati Uniti. Rischia di essere l’unico italiano in gara, Francesco Molinari, salvo sorprese, non ci sarà e invece Guido potrebbe farcela e magari, è questo il suo sogno, giocare in coppia con Renato Paratore, “fare i foursome con lui sarebbe una figata”. L’importante è non smettere di sognare, il futuro potrebbe non essere così lontano, forse è arrivato il momento della generazione dei ragazzi del 1997, penso a Victor Hovland, norvegese, già campione US Amateur, anche lui sul punto di esplodere e Will Zalatoris, appena più alto, appena più magro, appena più biondo di Guido, chissà non siano loro i rivali del prossimo decennio. Siamo solo all’inizio, ci sono milioni di palle da tirare e di fairway da centrare ma di certo le vittorie arriveranno, “intanto qui devo passare il taglio” e chissà che San Gaetano non gli dia una mano e che l’apoteosi non arrivi davvero al suo primo US Open, mancano cinque giorni e i pini di Torrey Pines non aspettano altro, queste righe son di certo un azzardo ma a volte, con un po’ di incoscienza, è anche bello essere il primo che le scrive.