That win the best
Non so se it's coming home, ma almeno non vedo la Copa America
La vittoria dell'Inghilterra, l'eccesso di metafore su Eriksen e un consiglio a CR7
Provate a immaginare se non ci fosse l’Europeo: saremmo stati invasi dagli highlights con i gol di improbabili attaccanti boliviani, racconti à la Osvaldo Soriano sul portiere di riserva dell’Ecuador, tonnellate di retorica sulla garra, il riscatto, il quartiere povero dove è cresciuto il terzino del Perù.
Londra. Mi tocca subito rivalutare l’Europeo, lo confesso. E non soltanto perché l’Inghilterra ha iniziato vincendo una partita che ha esaltato gli arrapati di ricorsi storici e segni del destino: si giocava di nuovo a Wembley dopo l’edizione del 1996, quando i Tre Leoni furono eliminati in semifinale ai rigori dopo l’errore di Southgate, che oggi allena la Nazionale, e si giocava contro la Croazia, che ci ha eliminati in semifinale ai Mondiali di Russia nel 2018, il tutto condito dalla stessa nostalgica canzone, quel It’s coming home che forse in realtà porta sfiga. Né mi tocca rivalutarlo per il felice esito del dramma di Eriksen, diventato suo malgrado il capo delle metafore sulla vita, sull’essere squadra, sul calcio-che-non-è-solo-un-gioco, che ha commosso i giornalisti perché Kjaer ha soccorso Eriksen anche se gioca nell’Inter e lui nel Milan (ma stiamo scherzando?). Tocca rivalutare l’Europeo perché il solo fatto che ci sia, che si giochino partite anche bruttine, ma si giochino, toglie spazio a uno degli appuntamenti calcistici più sopravvalutati al mondo dopo la Ligue 1: la Copa America.
Tanti neppure se ne sono accorti, che in questi giorni in Brasile si sta giocando il torneo famoso per essere la cosa più simile alla partita del giovedì sera con gli amici al mondo. Anche sulle homepage dei quotidiani sportivi le notizie che arrivano dal Sudamerica trovano spazio solo dopo un paio di scroll. Ma voi provate a immaginare se non ci fosse stato l’Europeo: saremmo stati invasi dagli highlights con i gol di improbabili attaccanti boliviani, racconti à la Osvaldo Soriano sul portiere di riserva dell’Ecuador, tonnellate di retorica sulla garra, il riscatto, il quartiere povero dove è cresciuto il terzino del Perù, aneddoti su Maradona e telecronache con le urla “gooooooool” che durano un quarto d’ora anche sul 7-0. Invece niente, o quasi. Il gol di Messi su punizione viene nascosto nel boxino delle curiosità, fanno più notizia i venezuelani col Covid dei dribbling di Neymar, possiamo finalmente confessare a noi stessi che della “rimonta show” del Paraguay ci interessa meno che dell’opinione dei virologi sulle elezioni amministrative.
Ben vengano Austria-Macedonia del nord, Finlandia-Russia e Turchia-Galles. Ben vengano i fischi ai giocatori che si inginocchiano contro il razzismo prima delle partite – la gente non è scema, capisce prima dei burocrati delle Federazioni quando una cosa non serve a niente – ben vengano le esaltazioni di giocatori considerati delle seghe clamorose fino al giorno prima di segnare da centrocampo, le previsioni che portano sfiga dopo le partite del primo turno, persino il calciomercato fatto in smartworking mangiando prosciutto crudo a letto e basandosi sui like dei giocatori su Instagram – “Tizio ha detto che gli piace la pasta, verrà in Italia!”, “Coso ha messo un mi piace a una foto dove si vede una birra, andrà al Bayern”. Adesso basta resistere ancora qualche giorno alla lettura geopolitica delle partite e alla coda lunga di questo anno e mezzo in cui siamo stati tutti virologi per cui abbiamo già fatto la diagnosi a Eriksen e deciso se, come e quando potrà tornare a giocare, ed è fatta. Non senza avere ricordato a Cristiano Ronaldo che non è l’agua che bisogna bere al posto della Coca-Cola, ma la cerveza.