Il Foglio sportivo
Il bello di tifare per una piccola
Il Taranto è tornato in Serie C. E noi possiamo continuare a sognare
Tifo per il Taranto. Domenica ho vinto.
Ora dovrei spiegarvi cosa significa tifare per una squadra piccola. No, non piccola come immaginate, quelle che alternano una buona Serie B a una salvezza in Serie A, qualche volta finiscono a metà classifica, ma sono alle porte dell’impero. Piccola che quando ti chiedono: “Per che squadra tifi?”, tu rispondi “Taranto” e loro ricominciano: “Sì, ma in Serie A per che squadra?” e tu non ce l’hai una squadra di Serie A, non tifi per nessuna oltre la tua, ma non ci credono. Dire piccola è pure buffo, perché la mia è la città più grande d’Italia a non essere stata in Serie A. Ma sta da tempo lì, in fondo ai gradini del calcio (serie D, fino a domenica scorsa) e nel profondo sud, dove capita a un certo punto di rassegnarsi e di scegliere anche una squadra di A, ma io no e molti altri nemmeno. A costo di non vincere mai, e di vivere male perché se poi emigri (vivo 500 chilometri più su) quelli che diventano i tuoi concittadini occasionali ti guardano come un disperato, uno che tifa Taranto a Roma, ma che vuol dire? Vuol dire che quella è casa mia: intendo lo stadio, la squadra, prima di tutto il resto. Il posto dove sono entrato bambino, diventato ragazzo e uscito adulto. Dove persino il dolore ha la sua perfezione nel presentarsi con anniversari tondi tutti all’improvviso. All’alba di domenica 13 giugno il Taranto non vinceva un campionato da primo in classifica esattamente da vent’anni (primo posto in C2 nel 2001), non conquistava una promozione sul campo da quindici (finale per la C1, nel 2006) ed era a dieci anni esatti dalla sua delusione più bella (2011, semifinale per la B, in casa dell’Atletico Roma). Se quest’ultima ricorrenza vi sembra strana, dovrei spiegarvi che celebriamo anche gli insuccessi, proprio come quel giorno di dieci anni fa in cui tutto era bellissimo, vivemmo un’incredibile festa di popolo, vincemmo ma non bastò (dovevamo avere due gol di scarto, subimmo il 3-2 al 90’) e ci consegnammo al destino, che ci fa perdere anche quando vinciamo.
Dovrei spiegarvi cosa vuol dire giocarsi un campionato di vertice, di quelli che avrebbero riempito lo stadio (e da noi riempire vuol dire proprio riempire, siamo capaci di numeri enormi anche in D), in questo anno in cui allo stadio non si può andare e ci sono pure nel club dirigenti di spicco che in molti non possiamo sopportare e che, quindi, ci tengono lontani. Ovvero cosa vuol dire questo continuo richiamo del disamore a cui non abbiamo ceduto, perché quando tifi per una squadra così, per cui quasi devi giustificarti, tifi per un’idea, ne fai un valore. Tifi anche senza conoscere i nomi dei giocatori, perché è importante quello che riescono a fare, non come si chiamano. È il mio caso, ma non solo, e se proprio mentre sto scrivendo mi dovesse passare davanti l’autore del gol decisivo di domenica (Antonio Santarpia da Castellammare di Stabia, anni 20, cognome che inizia con San non a caso) non saprei riconoscerlo.
Tifi perché sei parte di una comunità che non ha visto grandi vittorie e si è creata nelle clamorose sconfitte, e che continua a esistere con il passaparola di quello che siamo stati, perché ora veniamo da troppi anni di Serie D perché sia sufficiente il campo a sedurre una generazione di adolescenti. Allora tramandiamo: questa era la squadra di mio padre, ora è la mia, sarà quella di mio figlio. E qui nasce un altro problema: domenica ci giocavamo la vittoria del campionato all’ultima giornata, in casa del Lavello (capito? Del Lavello), che però era a Venosa (capito? A Venosa) e avevamo un punto di vantaggio sul Picerno (capito? Sul Picerno). Dovevamo vincere per forza per festeggiare (sì: il Picerno avrebbe vinto e infatti ha vinto) e ho rischiato tutto l’investimento emotivo fatto sul calcio da quando sono padre. L’ho vista con mio figlio, che già dalle ultime sconfitte vissute allo stadio, quando si poteva, non era uscito felicissimo. E pensavo: se non vinciamo come glielo spiego che deve abituarsi a perdere? Va bene l’amore, ma a quasi undici anni avrà il diritto, una volta, a esultare e capire che si può gioire anche per quella maglia disgraziata che ha indossato quando era molto molto piccolo, come fosse il suo vero battesimo?
Ora dovrei spiegarvi come può essere una partita che il Taranto deve assolutamente vincere, quindi quella di domenica. Vai in svantaggio, ovviamente: pensi che sia tutto finito. Poi pareggi, ribalti, finisci avanti il primo tempo e ti chiedi dove sia l’inganno, cosa stia per succedere adesso per punirti dell’eccesso di fiducia. Infatti inizia il secondo tempo e segnano quegli altri perché gli calci un pallone addosso. Provi pena per te, che hai scelto di tifare una squadra così difficile, e perché stai trascinando un bambino in questo gorgo di sempiterna disperazione. Ma poi, a otto minuti dalla fine, succede: segni, passi il resto del tempo a buttare il pallone dove capita, vinci. E cominci a fare l’elenco delle squadre che avrai contro l’anno prossimo, ora che siamo stati promossi in serie C: il Bari (che aspetti dal 1993, ignorando tutte le altre definizioni di derby presentatesi sul tuo cammino), il Palermo, il Foggia e via lottando. Cominci a pensare che forse è pure troppo, visto che hai appena finito di giocare, e sudare, a Venosa con il Lavello. Ma per un giorno ci sentiamo all’altezza. Ci sentiamo quelli che hanno battuto la Juve di Maifredi, il Milan dei giovani Baresi, Tassotti, Maldera, e hanno giocato 31 campionati in B. Una volta sognavamo la Serie A, ma la macchina del nostro centravanti è stata travolta e lui è morto con i nostri più grandi desideri. Abbiamo visto tante volte l’abisso e ci siamo quasi rassegnati, fino a domenica, il giorno che ha ci detto che possiamo continuare a sognare traguardi irraggiungibili anche senza conoscere i nomi dei nostri calciatori e anche se chi ci incontra continuerà a chiederci: “E in serie A, per quale squadra tifi?”. Per nessuna, caro. Anzi, la mia, quella di mio padre, quella di mio figlio, ha appena vinto.