La voce di Nicolò Carosio in quella finale a metà
Nell'Europeo del 1968 per la prima volta le qualificazioni alla fase finale si articolano in gironi e non per eliminazione diretta. Ma erano sfide autunnali e invernali. Sul finire della primavera si giovacano solo semifinali e finale. Quella che l'Italia dovette rigiocare per vincere la coppa
Sono passati due minuti dal calcio d’inizio e il vecchio Nick non ha ancora detto una parola della partita. Il gioco scorre con le sue prime azioni, batti e ribatti a centrocampo, qualche prima timida incursione verso le aree. Ma Nick continua imperterrito con la sua ouverture.
È la sera di sabato 8 giugno 1968 e dallo Stadio Olimpico di Roma la RAI sta trasmettendo in diretta la finale della terza edizione dei Campionati europei di calcio. Se la contendono gli azzurri, padroni di casa, e «la giovane e gagliarda nazionale calcistica jugoslava», così dice sempre il vecchio Nick, «in un incontro quanto mai incerto per quanto riguarda il risultato finale», come del resto, a logica, sono tutti gli incontri prima di incominciare.
Ma sulla gagliardia degli slavi e sull’incertezza del risultato finale, il vecchio Nick è così fermamente convinto che ripete due volte in meno di venti secondi lo stesso concetto con le identiche parole. Mentre le due compagini provano, a dire il vero stentatamente, ad abbozzare le prime trame di gioco, tra approssimativi controlli, rimpalli da biliardino e lisci degni di una balera casadeiana, il vecchio Nick ci tiene a precisare quanto siano rimaneggiate le due squadre, che Mazzola lasciato a riposo tra gli azzurri, che Rivera e Bercellino sono infortunati, che del «validissimo centrocampista» Ivica Osim, azzoppato in semifinale dagli inglesi – ma non servì: i “plavi” vinsero lo stesso in dieci, perché all’epoca dalla panchina poteva subentrare solo il portiere – ha preso il posto Jovan Aćimović, «convocato in emergenza da Belgrado» per giocare la finale; e poi ancora dell’Olimpico al gran completo e della «festosissima attesa con falò di carte e agitar di bandiere»; della «serata nuvolosa e di scirocco», del «terreno ottimo» e delle «autorità numerosissime, tra le quali l’onorevole Andreotti, il dottor Franchi, il sottosegretario Malfatti… anche se è impossibile nominarle tutte». Quando termina di snocciolare le due formazioni al completo, portieri di riserva compresi, e dopo aver fornito con una dettagliata minuzia da elettrotecnico che «l’illuminazione non è troppo confortevole perché sono state messe al minimo le tre ultime file di lampade sui torrioni che reggono l’illuminazione artificiale dello stadio, probabilmente per evitare una bruciatura generale» che avrebbe rischiato di rendere «impossibile lo svolgimento della gara», per fortuna sul campo non è successo nulla: il gioco continua impiastricciato a centrocampo, con qualche sporadico e innocuo lancio in profondità che oggi si chiamerebbe verticalizzazione.
Il vecchio Nick, per chi non l’abbia ancora capito, è Nicolò Carosio. Trentacinque anni prima ha inventato le radiocronache delle partite di calcio, rubando, e a dire il vero migliorando l’idea, alla BBC, dal momento che Carosio è mezzo inglese per via della madre, Josy Holland, una pianista maltese, andata in sposa a un ispettore di dogana palermitano. Nel 1932, tornato da Londra, dove ha ascoltato Herbert Chapman, mitico manager dell’Arsenal e inventore del “sistema”, raccontare una partita alla radio come se la stesse effettivamente guardando allo stadio, al venticinquenne Carosio viene in mente di proporre il “format” alla nascente EIAR. Sostiene un provino alla sede di Torino e lo mettono sotto contratto. La prima radiocronaca, parziale, è un Juventus-Bologna nella primavera del 1932. L’esordio internazionale è del 1° gennaio 1933, allo Stadio Littorio di Bologna, Italia-Germania 3-1.
Nicolò Carosio è per quasi quarantenni “the Voice” del football nazionale, l’inconfondibile voce che da forma via etere alle fantasie calcistiche degli italiani: lo sarà dei trionfi dell’Italia di Pozzo ai Mondiali del 1934 e del 1938, e, nel mezzo, delle Olimpiadi di Berlino del 1936. Voce e fantasia. La sua dizione è perfetta, il suo timbro è inconfondibile, il suo aplomp stilistico inimitabile. Ma qualcuno insinua che racconti una partita diversa da quella che gli spettatori vedono dagli spalti: del resto non è forse vero che le belle storie spesso è meglio non rovinarle con la verità? La sua “fantasia” comincia a essere un po’ smascherata con l’avvento della TV, intorno alla metà degli anni Cinquanta. Ce l’avrebbe messa tutta, il vecchio Nick, abituato fin dagli esordi a esaltare le gesta di Peppino Meazza e Angiolino Schiavio, di Amedeo Biavati e Silvio Piola campioni del mondo, e di Annibale Frossi olimpionico con gli occhiali, per dare un po’ di fantasioso vigore alle scialbe e incespicanti prestazioni calcistiche internazionali degli azzurri: la rocambolesca spedizione navale ai Mondiali brasiliani del 1950, l’asfittica performance a quelli svizzeri del 1954, la disonorevole mancata qualificazione ai Mondiali del 1958 in Svezia, la sventurata spedizione cilena del 1962 finita a cazzotti ed espulsioni; per finire con l’ignominiosa eliminazione per mano coreana ai Mondiali inglesi del 1966. Lasciamo pure perdere le competizioni continentali: neppure in lizza alle qualificazioni del primo torneo del 1960, eliminati dall’Unione Sovietica agli ottavi a quelli del 1964.
Ma alla terza edizione degli Europei – la prima in cui le qualificazioni si articolano in gironi e non per eliminazione diretta – l’Italia, insieme all’Unione Sovietica campione uscente, alla Jugoslavia e all’Inghilterra, giunge nel lotto delle prime quattro che si disputeranno il trofeo e ottiene, grazie al già carismatico e gran diplomatico Artemio Franchi, che da un anno è presidente della FIGC, di organizzare la fase finale in casa propria nella ricorrenza dei settant’anni della fondazione della federazione italiana.
È la primavera del 1968. Un mese prima nelle Università parigine è scoppiato il Maggio francese. In Italia, nel pieno della contestazione culturale, operaia e studentesca, si svolgono il 19 e il 20 maggio le elezioni politiche: tiene la DC, ma anche perché a sinistra, manco a dirlo, comunisti e socialisti si fanno la guerra. Il 3 giugno a New York Andy Warhol scampa per miracolo a un tentativo di assassinio; due giorni, a Los Angeles, dopo non scampa a un attentato il senatore Bob Kennedy. In Italia, tra il 5 e l’8 giugno sono programmate le quattro partite dei campionati europei. Il calcio è ancora lontano da essere un prodotto televisivo e l’“offerta” si riduce alle due semifinali del 5 giugno e alla finalina per il terzo e quarto posto e alla finalissima l’8. Le prime due si giocano a Napoli e a Firenze; le due finali a Roma.
Le semifinali sono entrambe incerte. A Firenze la Jugoslavia ha la meglio sugli inglesi a quattro minuti dalla fine soltanto grazie a un gol della sua stella, Dragan Džajić. A Napoli si esagera: dopo i tempi supplementari Italia e URSS sono ancora sullo 0-0 e il regolamento affida alla sorte il passaggio in finale. Qui la realtà si fa romanzesca, e non c’entra la fantasia di Carosio. L’arbitro Tschenscher convoca i capitani negli spogliatoi. Sarà il lancio della monetina a decidere. Mentre fuori sugli spalti il pubblico del San Paolo non si tiene per la tensione, nella pancia dello stadio la finale si gioca a testa o croce. Pare però che la prima monetina, uscita dalla tasca del direttore di gara, finisca curiosamente nello scarico di un tombino delle docce. Un dirigente della Federazione italiana, c’è chi dice lo stesso Franchi, prontamente allunga a Tschesncher il soldo di ricambio. L’arbitro chiede a Facchetti, capitano azzurro, di scegliere quale faccia della medaglia. “Testa” dice Giacinto, e il solito maligno sostiene che a sussurrarglielo sia il dirigente di prima: la monetina vola e atterra. “Testa” dice Tschenscher. L’Italia va in finale e capitan Facchetti risale in campo a braccia alzate. Delirio del pubblico partenopeo. Inutile sottolineare che la leggenda maliziosa narra che quella lira di scorta prontamente offerta all’ingenuo arbitro avesse la stessa faccia, anzi la stessa testa.
E così tre giorni dopo, il vecchio Nick, nella sua forbita e stentorea ouverture, può ben dire a ragione che «tutto quello che faranno gli azzurri in questa tanto ambita finalissima sarà ben accetto e sarà comunque una tanto attesa soddisfazione nel settantennio della Federcalcio dopo trent’anni di delusioni e di amarezze in campo calcistico». Insomma, dopo tanti bocconi di traverso Carosio non vede l’ora di tornare a dare voce a una vittoria dell’Italia.
L’Italia di Ferruccio Valcareggi, che ha ereditato la Nazionale del suo ex capo Edmondo Fabbri dalle macerie della “beffa coreana di Middlesborough”, vive le ambasce delle contrapposizioni tecnico-giornalistiche tra chi invoca un calcio d’attacco, affidato all’estro offensivo dei Rivera e i Mazzola, i cosiddetti “abatini” – i mezzi giocatori secondo il sarcasmo critico di Gianni Brera – a ispirare il braccio, anzi il piede armato, rigorosamente sinistro, di Giggirriva; e chi, Gioannbrerafucarlo in testa, teorizza e predica da almeno dieci anni la prudenza difensivistica, congeniale, a suo dire, all’etnos antropologico culturalcalcistico nazionale del “primo non prenderle”. In finale, il CT pare aver voluto assecondarei secondi. In porta gioca Zoff e in difesa, alle spalle dei due terzini marcatori, Burgnich e Guarneri, giostra da libero spazza-area lo juventino Castano, essendo fuori uso il titolare, Armando Picchi, libero dell’Inter herreriana. A sinistra, votato alle incursioni offensive, Giacinto Facchetti. Il centrocampo è molto più di lotta che di governo: ai polmoni e alla grinta del torinista Giorgio Ferrini e del milanista Lodetti si aggiunge la solida concretezza di Totonno Juliano, un abatone partenopeo, forseil meno sgradito a Brera ma anche lui più dedito all’argine che all’invenzione. A sgroppare ramingo sulle fasce, preferibilmente la destra, ma talvolta anche a sinistra, Angelo Domenghini. Infine, di punta due giovani rampanti e pressoché esordienti: Pierino Prati, detto la Peste, da Cinisello Balsamo, recente scoperta del Milan di Rocco, ai cui gol si deve di fatto la vittoria nell’ultimo turno di qualificazione contro la Bulgaria di Gundi Asparuhov, un Van Basten ante litteram; e un vero debuttante, Pietruzzo Anastasi, detto U Turcu, catanese, centravanti rivelazione della stagione appena conclusa, con la maglia del Varese, ma in procinto di passare alla Juventus.
La partita è confusa e spezzettata. Sarà il caldo dell’incipiente estate romana, sarà la fine della stagione e la semifinale con supplementari di tre giorni prima, ma a riguardarla ora quella partita non c’è davvero da rimpiangere la presunta “età dell’oro” del calcio italiano anni Sessanta. Carosio non può inventarsi, al buio della radio, un’altra partita. Il gioco è scadente. Le occasioni da gol rare e causali: un tiro di Ferrini dalla distanza che Pantelic, il portiere slavo, respinge come se il pallone avesse 200°C; qualche incursione di Domenghini, che sembra l’unico capace di saltare l’uomo ma che viene sistematicamente steso dagli avversari, senza però che le punizioni portino a nulla (per il momento); un tiro larghissimo di Prati; e ancora un’uscita di Pantelic che smanaccia sulla coscia di Domenghini che non riesce a deviare in rete. L’Italia gioca a folate, ma gli slavi progressivamente prendono il campo: giocano a ritmi bassi, spesso con palleggio e dribbling sul posto. Non sono però granché pericolosi, tranne quando Petkovic viene affossato in area da Ferrini. L’arbitro, lo svizzero Dienst, teatrale e rubizzo,quello del famigerato gol-fantasma convalidato a Geoff Hurst nella finale dei Mondiali di due anni prima, dice che non è niente. Marchio di casalinghitudine certificata. Anche Carosio, addirittura, esprime più di una perplessità sulla regolarità dell’episodio. Poi al 39’, dopo che il vecchio Nick non si esime dal notare che «un mortaretto di notevole efficacia è scoppiato dietro la porta difesa da Zoff» , Petkovic fugge sulla destra e mette al centro un cross teso e radente. Lo lisciano in coppia Acimovic e Burgnich, ma in mezzo all’area, Džajić, ammaestra la sfera e, seppur circondato e sballonzolato da un drappello concitato di azzurri, tocca con un colpo d’esterno sinistro e infila Zoff.
Per tutta la ripresa l’Italia cerca il pareggio, ma le idee sono poche, e le forze ancora di meno. Gli slavi traccheggiano, facendo possesso palla con movenze che spesso irridono alla sfiancata veemenza degli azzurri. Gli unici a non mollare sembrano Facchetti, un purosangue costretto ai margini della tenzone, e l’indomito Domingo Domenghini. Le speranze sembrano perdute, anche per quelli che tra il pubblico cominciano a sfollare in anticipo. L’enfasi del vecchio Nick si sfiata a ogni giro d’orologio, proposto impietosamente da un’incerta sovrimpressione RAI . A dieci minuti dalla fine Giovannino Lodetti viene abbattuto sulla linea della lunetta dell’area avversaria. Il calcio franco è dai diciotto metri. Prende la rincorsa, lunghissima, Domingo il randagio che, senza troppi complimenti tenta il dritto per dritto. La staffilata a filo d’erba trova uno spiraglio nella barriera a cinque degli slavi. La passa palla e s’insacca alla sinistra dell’attonito Pantelic. L’Olimpico esulta. Carosio si augura, forse estenuato lui stesso, che dopo «il rifiorire imprevisto delle speranze» la partita si possa chiudere anche prima del 90’, per evitare i supplementari che avevano prosciugato le energie già in semifinale. Non andrà così. Ancora una volta è necessaria la “giunta” di mezz’ora. Una propaggine sfinita, per i ventidue in campo e per il vecchio Nick, il cui commento gradirebbe il cordiale conforto di uno scotch. I due tempi supplementari sono una mesta processione quaresimale. Il risultato resta in equilibrio che, da regolamento, non sarà spezzato questa volta dall’azzardo della monetina. Il match viene ripetuto due giorni dopo, lunedì 10 giugno. Carosio forse non sa ancora che il desiderio di tornare a siglare a voce una vittoria azzurra non si avverrà.