Bella Italia, ma basta Notti Magiche
Sul paragone tra questi giorni e quelli di Italia ’90 grava un equivoco enorme: in quel Mondiale delle illusioni non ci fu nulla di buono , tanto meno per Mancini e Vialli. Se proprio si deve guardare indietro, meglio Argentina ’78
Ora che siamo arrivati a metà, e la metà che manca è quella più succulenta, che darà senso e sapore a tutta la storia. Ora che inizieremo a giocare oltre confine, sparpagliati e sballottati a ogni latitudine del Grande Continente, nel brivido, nell’incertezza e nella desiderabile estasi dell’eliminazione diretta, chiediamo solennemente una moratoria: basta con le Notti Magiche, basta con la magia dell’Olimpico, basta cor ponentino malandrino che spira sulle tribune, basta con Edoardo Bennato e Gianna Nannini (non in senso assoluto, ci mancherebbe, solo per quella canzone). Sul paragone scontato, per certi versi inevitabile, di questi giorni con quelli di Italia ’90 grava un equivoco enorme.
In buona sostanza: non ci fu nulla di buono in Italia ’90 se non l’ingannevole profumo della nostalgia di tempi felici, magari legati all’infanzia e all’adolescenza, il ricordo un po’ bacato di un paese di posti fissi dalla solidità economica apparentemente marmorea – ma di quel marmo posticcio sotto il quale talvolta si nasconde la cartapesta. L’Italia-champagne sicura di sé, quella sicurezza che anticipa regolari disastri; l’Italia che si era disegnata in anticipo l’autostrada verso la gloria, a Roma fino ai quarti, poi semifinale a Napoli per far contenti i notabili della Dc, poi di nuovo all’Olimpico contro la Germania e campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo. Vai a immaginare che l’Argentina sarebbe finita terza nel girone, terremotando ogni pronostico e trasformando il bagno di folla nel Meridione passionale in una tagliola in cui inciampare con tutte le scarpe, con l’alibi del fattore San Paolo pronto già un minuto dopo il rigore sbagliato da Aldo Serena, come da squisito costume italico: colpa del pubblico di Napoli, colpa dell’arbitro Vautrot troppo poco casalingo, colpa naturalmente di Maradona, il Diavolo, travolto di fischi in mondovisione – così impara, quel bastardo - sull’inno nazionale dal pubblico di Roma, a cui Diego rispose da par suo. L’Italia al suo peggio, un paese di Luchi di Montezemolo che si dichiarano sempre prontissimi per ogni incarico, per tacere del malaffare respirato a pieni polmoni, degli stadi-cattedrali nel deserto e di tutto il costo in vite umane riassunto da Elio e le Storie Tese nel folgorante incipit di “Giocatore Mondiale”: Là c’è una bandiera che sale / qua c’è un muratore che cade. In quell’euforia che si risolse in nulla c’era il trailer nascosto che non volemmo vedere, inebriati dall’ultima estate degli anni Ottanta anche se eravamo già Italia Novanta: Tangentopoli, lo sfascio del sistema politico, la svalutazione della lira, le stragi mafiose…
Quel che è peggio, e che ci interessa ancora di più trattandosi di calcio, è che Italia ’90 fu un Mondiale indiscutibilmente brutto, con il record di partite finite ai supplementari e ai rigori, maratone di 120 minuti di cui si poteva intuire l’esito già dopo un quarto d’ora, che spinsero la Fifa a due modifiche regolamentari decisive per la salvezza del calcio: l’abolizione del retropassaggio al portiere e l’introduzione dei 3 punti a vittoria. Come si dice a Roma, l’Italia si consolò con l’aglietto del premio della critica per il gioco più bello, ma tuttavia non riuscì mai ad andare oltre i due gol a partita: speculammo anche noi un pochettino (cosa che per il momento quest’Italia 2020/2021 non fa), cullandoci troppo presto su una difesa apparentemente inespugnabile che crollò sul più brutto sullo spiovente di Olarticoechea che mandò a vuoto Zenga, il momento-Vajont del calcio italiano. Quante illusioni, quanta poca di quella lungimiranza da padre di famiglia che caratterizzò e caratterizzerà tutte le Italie migliori; quanti errori di valutazione da parte di Azeglio Vicini, buon uomo ma inadeguato al ruolo di ct nel Mondiale più scivoloso della nostra vita consapevole – e se non credete al sottoscritto, state a sentire chi disse che “il mio torto era solo quello di giocare nella Sampdoria e non in una società politicamente più forte. E Vicini non è mai stato un cuor di leone. Contro l’Argentina sarebbe bastato mettere Vierchowod su Maradona. Lo avrebbe annullato e tutto sarebbe cambiato. Lo avrebbe visto anche un cieco, ma purtroppo non Vicini”. Parole e musica, al Corriere della Sera, dell’attuale ct della Nazionale.
A proposito, che non vi venga in mente di parlare di Notti Magiche a Vialli e Mancini. Del Mancio abbiamo detto: zero minuti giocati in sette partite, e più non dimandare. Il Mondiale di Luca fu ancora più traumatico: partito con il peso di essere il centravanti titolare della squadra campionessa designata, la nostra risposta a Van Basten e Maradona si avvitò in un malinconico tunnel senza uscita tra rigori sbagliati, infortuni muscolari, crolli di fiducia e sparate alla John Belushi che peggiorarono la situazione, convincendo il debole ct a schierarlo titolare contro l’Argentina al posto di Baggio. Zero gol anche per lui, e mai più Mondiali.
Ora torniamo per un attimo all’Italia del presente, che in sole due partite è riuscita nel miracolo di restituirci entusiasmo e appartenenza senza fughe in avanti, senza nessuno che chieda la luna perché abbiamo battuto Turchia e Svizzera. E’ opinione diffusa, molto assennata, che qualsiasi cosa arriverà dai quarti in avanti sarà tanto di guadagnato. E’ un equilibrio miracoloso e ben poco italiano che speriamo duri il più a lungo possibile e non degradi in risentimento in caso di eliminazione anticipata. E’ vero che il ricordo delle macerie di Italia-Svezia è ancora troppo fresco per spiccare voli pindarici da Notti Magiche, ma è vera un’altra cosa: l’Italia è di tutt’altro umore rispetto all’ubriacatura permanente degli anni Ottanta, quando ci davamo l’obbligo di puntare al sole più per slogan che per reale convinzione. Qui invece stiamo cercando di sopravvivere, festeggiamo una punturina nel deltoide come Tardelli al Bernabeu, viviamo la minima buona notizia come un bonus imprevisto, economico e morale. E’ vero che abbiamo qualche buon motivo per antipatizzare verso molti di questi giocatori, da Bonucci al flight simulator Chiesa fino al recentissimo affaire Donnarumma, ma non possiamo restare insensibili al clima generale di ricostruzione e ripartenza dal basso, non solo nell’impostazione della manovra ma anche del modo di stare al mondo se sei un calciatore della Nazionale. Il candore anni Sessanta di Manuel Locatelli che dedica la sua doppietta “a tutti gli italiani” non sembra artificioso, così come i modi da damerino del ct super-testimonial sono più un vezzo che un’attitudine.
Così c’è un precedente storico che ci pare molto più calzante di Italia ’90: Argentina 1978, quando il paese era in ginocchio sotto molti punti di vista, politico finanziario e calcistico, e la partenza per Buenos Aires fu salutata da una salva di fischioni dallo stesso Olimpico di Roma, dopo un disperante 0-0 in amichevole contro la Jugoslavia. Nelle notti argentine causa fuso orario scoprimmo una generazione di talenti che partiva da Rossi e Cabrini dissetanti come una fetta d’anguria, e così iniziammo a diventare italiani nuovi, nuovamente italiani: e se il triangolone Locatelli-Berardi-Locatelli contro la Svizzera vi ha riportato in mente l’azione Bettega-Rossi-Bettega contro l’Argentina, sappiate che non siete i soli.
Al di là della divisa grigio-argento che vuole essere un omaggio al 1982, Roberto Mancini ed Enzo Bearzot non sembrano avere nulla in comune. Molto più uomo di mondo il Mancio, per cui è irraggiungibile l’immane drittezza morale del Vecio, ma anche certe asprezze come il famoso schiaffo alla tifosa che lo insultava perché non aveva convocato Beccalossi. E’ noto l’aneddoto di Bearzot che in una trasferta americana del 1984 aspettò fino alle sei del mattino il diciannovenne Mancini di ritorno da una notte da leoni a New York, con tanto di capatina allo Studio 54, e giurò solennemente a sé stesso di depennarlo dai convocati della Nazionale finché ne avesse avuto il potere, mantenendo la promessa. “Quando lo rincontrai si mise le mani nei capelli”, ricorderà Mancini, “mi chiese: ‘Ma perché non mi hai chiamato? Aspettavo solo una telefonata di scuse per convocarti ai Mondiali 1986’. Volevo morire”. In modi diversi ma ugualmente efficaci, sia Bearzot che Mancini hanno individuato nel gruppo la loro unica stella polare. Che sia Settantotto, e non Novanta. Intanto perché dopo il ’78 c’è l’82, e poi perché ci piacque un sacco quel “non aspettiamoci nulla” che evolvé nella più dolce delle avventure, a cui mancò solo un po’ di furbizia e mestiere per diventare un capolavoro – il che temiamo possa accadere nel quarto contro il Belgio o nella semifinale contro la Francia. Ma, per adesso, non ci pensiamo. Let it be. Tutto scorre nelle alte e basse maree di un lungo torneo: le cautele per la Turchia poi rivelatasi una squadraccia, lo scetticismo su Berardi, oppure tutto quest’ottimismo che non ci appartiene, ci spiazza, un po’ ci fa paura. Godiamocelo e basta, levandoci una volta per tutte questo nostro maledetto vizio di pensare sempre al passato.