Cos'è successo a Fabio Aru?
La ricerca del tempo perduto dello scalatore sardo che ha rinunciato a correre il Tour de France
Questa volta il piede a terra l’ha messo preventivamente e per privata iniziativa. L’orgoglio e l’ostinazione li ha messi da parte, li ha sostituiti con un rammaricato realismo: “So cosa serve per essere competitivi al Tour, io ho avvertito problemi fisici nel fine settimana, il mio corpo non è dove dovrebbe essere per la Grand Depart”. Fabio Aru al Tour de France 2021 non ci sarà. Il Team Qhubeka ASSOS lo ha sostituito con lo spagnolo Carlos Barbero.Nessun numero sulla schiena, nessuna bicicletta sull’ammiraglia, nessuna possibilità di rivalsa. Ne avrebbe avuto bisogno, anche fosse una cosa passeggera, una botta e via.
È da un po’ di anni che per lo scalatore sardo le ruote sembrano non girare. Anni nei quali si è ostinato a inseguire ciò che è stato, come se il passato si potesse afferrare e riproporre allo stesso modo in cui s’era presentato. Funziona mai così.
E pensare che tutto è iniziato a sgretolarsi proprio nel momento più bello: vittoria in cima alla Planche des Belles Filles al Tour de France con la maglia tricolore, coperta qualche giorno dopo dalla maglia gialla. Finì quinto quella Grande Boucle. Era il 2017. Poi solo fatica, ritardi, distacchi, qualche sprazzo di buone pedalate, troppi ritiri. Tra questi un’operazione per rimuovere una costrizione dell’arteria iliaca della gamba sinistra e rientro troppo frettoloso in gruppo per cercare di riprendere da dove aveva lasciato, per cercare di fregare il tempo perso. Il tempo però non si lascia fregare, prosegue disinteressandosi completamente del tentativo di bloccarlo e riportarlo indietro.
Fabio Aru nella sua ricerca del tempo perduto ha smarrito la strada che porta al tempo futuro. Si è ritrovato disorientato in mezzo a una nebbia fitta. A volte basta poco per diradare la foschia, un soffio di vento amico, una bussola e una buona conoscenza di dove si è e di dove si deve andare. A volte invece si rischia di perdersi per davvero, di faticare enormemente senza trovare una soluzione. Si inizia a girare in tondo e in tondo si continua ad andare.
E quando è così un taglio netto con quello che si è fatto sino a quel momento può non bastare. Servirebbe dimenticarsi completamente di ciò che si era e ricostruire una nuova immagine di sé. Praticamente fuggire da tutto ciò che si è costruito. Ce la fanno in pochi, in pochissimi tra chi è riuscito a conquistare qualcosa. Soprattutto se ci si è compiaciuti di ciò che si è stati.
Fabio Aru a suo modo è stato un vincente. Perché altro non si può essere altrimenti se in carriera si è riusciti a vincere almeno una tappa in tutti i tre grandi giri, se si è riusciti a salire sul gradino più alto del podio a una Vuelta a España e una maglia bianca di miglior giovane al Giro, se in salita si riusciva a staccare tutti. Ed è stato un vincente che non si è mai nascosto dietro alla solita sceneggiata del “ho vinto mio malgrado”, a una posticcia umiltà. Sapeva di essere forte e non si nascondeva. Fosse nato in un altro paese forse Aru se la sarebbe cavata con qualche battuta, ma l’Italia non perdona tutto ciò. Spesso tollera chi vince aspettando solo il primo momento no per ricoprirlo di dubbi, insolenze e illazioni. E quando la tua sicurezza è una maschera per non dover ammettere di essere un essere umano qualunque, con magari il dono di andare forte in salita, ecco che tutto ti si rivolge contro e alla fatica del pedalare si aggiunge quella, molto più pesante, di dover dimostrare per forza qualcosa a qualcuno. E non sempre si riesce.
Poteva fregarsene della classifica generale, smetterla di pensare alle tre settimane e provare a vedere l’effetto che faceva vivere alla giornata, gustarsi l’effimera incertezza delle fughe. Non ha avuto la capacità di farlo. Forse per ossessione, forse per mal consiglio. Chissà. E in questa spirale ha perso la cosa più importante del pedalare: il piacere di farlo. Il suo viso lungo si è prima allungato ancor di più in un ghigno di insoddisfazione, poi si è incupito. Ha abbandonato il sorriso.
L’ha provato a ritrovare lontano dall’asfalto, tra i campi invernali. Ritornare al ciclocross lo ha rallegrato per un po’. Non è bastato. Alle prime corse su strada sono tornati i pensieri fissi di sempre, amplificati dall’eco che arrivava da lontano, da chi trova sempre un modo per ghignare e malignare sulle sconfitte altrui.
Fabio Aru si è evitato quelle che sarebbero arrivate lungo le terre di Francia. Attenderà il futuro. La speranza è che non lo faccia ancora con la testa rivolta al passato.